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Il governo casca o non casca? La legislatura dura o non dura? Mentre questo numero di Mondoperaio va in stampa, i quotidiani titolano che ci aspetta la “settimana della verità” per la politica italiana. L’unica cosa che possiamo prevedere è che probabilmente non sarà così. Non emergerà nessuna “verità”: al contrario – finché qualcuno non troverà la chiave per spezzare l’incantesimo – andrà avanti il reality show in cui ognuno cerca di spararla più grossa degli altri, sapendo che non può fare niente in ogni caso. Un reality che crea dipendenza negli elettori che guardano questa telenovela permanente, ma allo stesso tempo frustrazione nei cittadini che percepiscono la politica come sempre più incapace di affrontare i problemi che parlano alle loro vite. Per dirla con Marco Damilano, mentre nella Prima Repubblica l’onnipotenza dei leader si sposava spesso con la loro invisibilità, oggi è l’impotenza a sposarsi con la loro “onnivisibilità”. Salvini fa l’opposizione a Di Maio, attribuendo la colpa dei ritardi del governo sul fronte della crescita economica ai NO dei 5 Stelle. Di Maio fa l’opposizione a Salvini, attaccando le sue derive neo-autoritarie e provando ad agitare una nuova questione morale, senza spingersi a staccare la spina a un governo che rappresenta la sua unica speranza di continuare a fare politica. Dalle “convergenze parallele” della Prima Repubblica siamo passati alle “divergenze asintotiche”: si litiga su tutto ma si continua a far finta di governare insieme. Mentre il mondo corre, l’Italia si è fermata di nuovo, occupata com’è a baloccarsi col suo reality show.

Nel frattempo, nel ruolo di attore non protagonista, il Pd fa l’opposizione a sé stesso. Balbetta e non dice cose chiare, tranne quando c’è da menarsela di santa ragione al proprio interno, il più delle volte su temi che riguardano il passato e i governi della scorsa legislatura. Durante il mese che ha accompagnato l’ultimo numero della nostra rivista, i dirigenti del Pd hanno ritenuto utile occupare il proprio tempo a litigare fino alla morte, in pubblico e sui social, rispetto a tre temi di cui non frega niente a chi non fa parte del Pd: (1) se i sindacati hanno fatto bene o male ad andare a un incontro al Viminale (e non, casomai, che cosa avrebbero dovuto dire e non hanno detto quando sono usciti da quell’incontro); (2) se la mozione parlamentare di sfiducia contro Salvini andava presentata prima o dopo che il Nostro si fosse presentato in Parlamento; (3) se è utile commissariare il partito in qualche regione appellandosi a inesistenti vizi di forma e a quale delle correnti di maggioranza o minoranza debbano essere allocati i commissari regionali. Per la serie: continuiamo così, facciamoci del male.

Eppure, in uno scenario politico di grande volatilità elettorale, c’è una fascia di elettori sempre più numerosa che vota partiti di cui magari non condivide del tutto il messaggio ma che hanno posizioni chiare e nette sull’indirizzo politico da dare al Paese. Il Pd, invece, il più delle volte non prende voti perché non si capisce che cosa dice. È un limite che mette a rischio l’esistenza stessa di un progetto politico. Identità e messaggi devono essere chiari. L’alternativa alla nettezza è la melassa, in cui è tutto un dire e non dire per tenere insieme capicorrente o ex ministri, perché poi tanto si pensa di incarnare la parte responsabile della classe dirigente dell’Italia, quella che tutti dovrebbero votare perché noi siamo competenti e gli altri cialtroni. Come abbiamo visto, però, questo non basta, perché oltre metà dell’elettorato ha già preferito i cialtroni ai competenti, che qualche problema in più dovrebbero porselo. C’è una forte domanda di chiarezza. La melassa, al contrario, uccide la vocazione maggioritaria e anche la capacità di stare insieme, perché crea la domanda da parte degli elettori di tornare alla distinzione dei ruoli tra sinistra e centro. Sta riemergendo la domanda della “bicicletta”, con la ruota di sinistra che parla con i sindacati e la ruota di centro che parla con gli imprenditori del Nord Est, che è l’esatta antitesi del progetto del Partito democratico.

Spezzare l’incantesimo, dicevamo. Ma come? Non è facile. Ma almeno cominciamo a capire che la partita vera non si gioca nei prossimi mesi ma nei prossimi anni. O meglio: la partita che si gioca nei prossimi mesi riguarda la sopravvivenza dei gruppi dirigenti. Ma questa partita dovrebbe contare poco per chi ha a cuore quella vera, che riguarda la sopravvivenza del Pd e la possibilità di una forza innovativa di centrosinistra di svolgere una funzione nazionale. Questa partita, quella vera, si gioca sull’orizzonte dei prossimi anni. Poi, per carità, la tattica politica richiede anche scelte nell’immediato. Ma su questo basta dire parole chiare su un punto: se cade il governo Conte si deve andare al voto. Non si deve ripetere l’errore del 2017, quando dopo il referendum costituzionale la legislatura aveva perso il suo significato e si doveva andare a votare. Quella era la legislatura delle riforme, questa è la legislatura del Giano Bifronte populista. Sconfitta l’opzione politica che caratterizza una legislatura, la parola deve tornare agli elettori. L’opzione di un governo sostenuto da 5 Stelle e Pd in questa legislatura è pura fantascienza. Poi c’è sempre chi si appassiona alla fantascienza per ritagliarsi un ruolo, ma cominciamo a dire con chiarezza che questi sforzi non sono nell’interesse né del Pd né dell’Italia.

Poi c’è il tema dei prossimi anni, di come combattere una guerriglia delle idee, per dirla con Giuliano Da Empoli, che smini l’egemonia culturale che le forze nazional-sovraniste hanno conquistato – dopo anni di duro lavoro sui social e sui territori – su tutta una serie di temi, dall’immigrazione all’austerità. Per sconfiggere questa egemonia dobbiamo mollare l’àncora e navigare in acque nuove, provando a sintonizzarci su temi inizialmente non forti ma che lo diverranno nei prossimi anni, di fronte alle contraddizioni che l’Italia sta continuando ad accumulare. Il nostro è un Paese vecchio. L’emergenza non sono quaranta disperati che rischiano la vita in un barcone sfuggendo alla guerra, ma centinaia di migliaia di giovani italiani che vanno all’estero per inseguire i propri sogni. Non c’è futuro per un Paese che spende più in interessi sul debito che asili. Così come non c’è futuro per un Paese dove ogni neonato eredita da subito 40mila euro di debito pubblico, piuttosto che un conto individuale di formazione permanente che lo accompagni per tutta la vita di fronte ai mutamenti del mercato del lavoro. Senza immigrazione non c’è crescita o stato sociale che tenga per l’Italia, ma l’immigrazione va gestita con politiche di integrazione che partano dalle esigenze di chi integra non solo di chi arriva. In Italia si deve poter arrivare andando in ambasciata, non rischiando la vita in un barcone, ma quando si va in ambasciata si deve essere inseriti in un percorso di politiche lavorative, formative e abitative che riducano gli effetti collaterali su chi in Italia c’è già e fa fatica ad arrivare a fine mese.

Il nostro è un Paese che si sta presentando del tutto impreparato alle grandi transizioni dell’ecologia e della tecnologia. Smettiamola di parlare di ambiente con obiettivi astratti (“ridurremmo le emissioni di non so cosa per non so quanto entro il 2030!”) e parliamone come la sfida decisiva per creare sviluppo senza mettere a rischio la qualità della vita nelle nostre città e nelle nostre aree interne. E la tecnologia non è uno spauracchio da esorcizzare con l’assistenzialismo, ma una sfida che può farci valorizzare i due giacimenti di petrolio ancora inesplorati che abbiamo: l’occupazione femminile e quella giovanile. L’Italia non tornerà a creare ricchezza se non troverà un modo nuovo per parlare di ambiente, natalità, occupazione femminile, scuola, qualità del lavoro e immigrazione. Buon vento a chi ci proverà.