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Anpal: reset

Tommaso Nannicini, Chiara Gribaudo
Welfare/#anpal#politichedellavoro

È arrivato il momento di pigiare il tasto “reset”. Di ripensare le politiche passive (ammortizzatori sociali) e attive (formazione e servizi intensivi per la ricerca di un lavoro) all’interno di un disegno organico, innovativo e coraggioso

 

Il re è nudo. La parabola tragicomica (più tragica che comica, da quando è scoppiata la pandemia) del presidente di Anpal, il professore del Mississippi Domenico Parisi, fortemente voluto e pubblicizzato dall’allora ministro del lavoro Luigi Di Maio, è il simbolo di una strategia fallimentare sulle politiche del lavoro. Ci sono i rimborsi spese esorbitanti e mai chiariti, c’è l’ormai accertata incompatibilità – ai sensi della legge italiana – tra il ruolo di presidente di Anpal e un contratto di lavoro dipendente con l’Università del Mississippi, c’è un piano industriale che dopo un anno di annunci non vede ancora la luce, ci sono i precari Anpal che aspettano risposte (nonostante il Parlamento abbia già stabilito il quadro normativo e le risorse per la loro stabilizzazione), e c’è stato il tentativo maldestro di strapagare un fantomatico software per l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Di fronte a tutto questo, è inspiegabile perché il governo non si affretti a cambiare guida per l’Agenzia nazionale per le politiche del lavoro, cogliendo l’occasione per un ripensamento complessivo degli interventi che servono per aiutare i disoccupati a formarsi e trovare un lavoro. Tanto che qualcuno potrebbe essere portato a porsi una domanda di stampo andreottiano (nel senso che a pensar male si fa peccato, ma qualche volta ci si azzecca): forse fanno gola i dati individuali a cui Anpal potrebbe avere accesso in futuro? A chi? E perché?

Ma lasciamo un attimo da parte l’uomo venuto dal Mississippi, che come dicevamo è solo la punta dell’iceberg di un problema più ampio, e facciamo un passo indietro. Dove stanno andando le politiche del lavoro in Italia? E dove dovrebbero andare? Il disegno innovativo contenuto nel decreto legislativo 150/2015 del Jobs act è rimasto in gran parte sulla carta. Per tre errori che abbiamo commesso allora: 1) ci abbiamo investito poche risorse finanziare per mancanza di coraggio (mentre le riforme a costo zero esistono solo negli editoriali degli economisti); 2) non abbiamo sciolto il nodo di un quadro istituzionale iniquo e inefficiente nei rapporti tra Stato e regioni (sperando nella spallata del referendum costituzionale, che poi è arrivata, ma in senso opposto); 3) abbiamo vissuto le politiche passive e quelle attive come sostituti e non come complementi in un quadro dove nessuno è lasciato solo di fronte alla fatica del cambiamento nel mondo del lavoro. Dopodiché, è arrivato il governo giallo-verde. Si è tolto l’assegno di ricollocazione ai disoccupati per darlo ai poveri, che non ne avevano bisogno, così come non avevano bisogno di navigator precari e senza strumenti o responsabilità definite. Insomma, piuttosto che aggredire i tre errori di cui sopra, si è deciso di abbandonare il disegno del decreto 150/2015 senza sostituirlo con nient’altro di sensato.

E ora? È arrivato il momento di pigiare il tasto “reset”. Di ripensare le politiche passive (ammortizzatori sociali) e attive (formazione e servizi intensivi per la ricerca di un lavoro) all’interno di un disegno organico, innovativo e coraggioso. Di fronte allo tsunami che ha colpito il nostro tessuto produttivo con la crisi da Covid-19 le nostre discussioni se sia meglio proteggere i lavoratori “dal” mercato o “nel” mercato non hanno più senso. Nonostante cassa integrazione e vincoli ai licenziamenti, nei mesi di marzo e aprile abbiamo perso 400 mila occupati. Una cifra enorme e mai vista in così poco tempo. Per ora sono lavoratori precari, autonomi e giovani in ingresso nel mondo del lavoro a pagare il conto più alto, ma in autunno altre fasce del lavoro dipendente privato avranno serie difficoltà. Dobbiamo evitare che la crisi occupazionale sfoci in una crisi sociale. Prendendoci cura di chi perderà il lavoro, con un reddito vero e con politiche attive e della formazione dove ci saranno da investire miliardi di euro. Pensare di aiutare i disoccupati con il reddito di cittadinanza è una stupidaggine. Non tutti i disoccupati sono poveri, per fortuna. Devi aiutarli con un salario di disoccupazione che gli dia un reddito forte appena perdono il lavoro (una Naspi rafforzata e senza cali del reddito nel periodo in cui la percepisci). Devi aiutarli a fare formazione di qualità e spostarsi laddove si crea domanda di lavoro.

Abbiamo fatto l’app Immuni per l’emergenza sanitaria. Ora dobbiamo fare l’app Occupati. Intendiamoci: non si tratta di comprare qualche software magico o di fare un’interfaccia carina, ma di cambiare alla radice il modo con cui si fanno le politiche del lavoro. Serve un approccio 4.0 basato sull’analisi dei dati, su servizi personalizzati in tempo reale e su agenzie del lavoro – pubbliche, private e del terzo settore – che diano servizi partendo dalla domanda di lavoro. I navigator devono parlare con le imprese, devono conoscerle, altrimenti non potranno mai rispondere a chi ha bisogno di aiuto nel mondo del lavoro.

Per fare tutto questo, serve una riforma della governance delle politiche del lavoro. A partire dal coordinamento nazionale in capo all’Agenzia nazionale, sarà necessario far sì che ognuno dei protagonisti in campo, dai centri per l’impiego alle agenzie private, dal governo nazionale a quelli territoriali, abbia responsabilità chiare nel creare un sistema dei servizi per l’impiego che garantisca uguali diritti a tutti e su tutto il territorio nazionale. Il punto focale verso cui dovranno convergere i vari segmenti della rete dei servizi per l’impiego è la persona. Solo mettendo al centro la persona, infatti, è possibile che l’esercizio effettivo del diritto al lavoro non si infranga contro le barriere frapposte tra un livello e l’altro: centro e periferia, pubblico e privato, istruzione e lavoro, e via snocciolando.

Per concentrare le azioni sulla persona, dobbiamo adottare una logica d’intervento basata sulla gestione attiva delle transizioni che ognuno di noi affronta nel proprio ciclo di vita: studio; alternanza scuola-lavoro; tirocini curricolari (magari è arrivato il momento di finirla con quelli extracurricolari); apprendistato; formazione continua; passaggio tra forme di lavoro diverse (dipendente o autonomo, temporaneo o indeterminato, part-time o a tempo pieno); passaggi da un’azienda a un’altra (o dal pubblico al privato e viceversa); mobilità geografica; riqualificazione e nuove competenze; invecchiamento attivo ed evoluzione delle mansioni; accompagnamento alla pensione. È necessario trasformare questi passaggi in un valore positivo, per far sì che il lavoro sia uno strumento di emancipazione della persona.

Per essere ancora più concreti, si deve creare uno strumento di identificazione individuale che vada oltre il “fascicolo personale del lavoratore”, rimasto tra l’altro ancora inattuato. Quando nasci in Italia, non devi ricevere solo il codice fiscale (simbolo che il tuo rapporto con lo Stato sarà mediato principalmente dal fisco) ma un “codice di cittadinanza attiva” che raccolga tutte le politiche attive, passive e formative che riceverai lungo il ciclo di vita (si veda “Dal Jobs act al Codice di cittadinanza attiva”, di Maurizio Del Conte e Tommaso Nannicini, sul Foglio del 22 dicembre 2017). Di che cosa si tratta? Di una bussola dei diritti del lavoro che ti segua e si adatti al tuo percorso.

In Francia si sta sperimentando con successo il “conto personale di attivazione”, dove si registrano tutti i momenti formativi della persona. Con il codice di cittadinanza attiva potremmo andare oltre la formazione, estendendolo all’intera gamma delle politiche attive del lavoro e anche alle politiche passive di garanzia del reddito. Il codice dovrebbe consentire la registrazione di tutte le prestazioni sociali di attivazione erogate all’individuo. Grazie alle informazioni registrate, si potrebbero poi predisporre misure personalizzate in coerenza con ogni traiettoria individuale. In modo da garantire la presa in carico permanente della singola persona, garantendo la portabilità: a) della formazione, indipendentemente dalle transizioni da un contratto a un altro o da una forma di lavoro a un’altra; b) delle competenze professionali, acquisite in tutto il percorso di carriera e in qualsiasi luogo, compreso all’estero; c) delle misure per la ricollocazione al lavoro; d) dei servizi di welfare e garanzia del reddito, rendendo complementare il welfare pubblico con quello aziendale, contrattuale, integrativo. Uno strumento del genere permetterebbe il monitoraggio continuo dello stato occupazionale dell’individuo, al quale dovrebbe essere destinato un servizio telematico di assistenza personalizzata. E per far funzionare tutto questo come si deve, si potrebbe pensare di spostare la gestione degli ammortizzatori sociali e del welfare dall’Inps a una nuova Anpal, che a quel punto diventerebbe una vera agenzia nazionale per tutte le politiche attive e passive del lavoro. Questo cambio di logica d’intervento, in sintesi, permetterebbe di portare la nuova protezione delle lavoratrici e dei lavoratori di cui parliamo da anni fuori dai nostri convegni per raggiungere finalmente la vita delle persone.