Jan. 17, 2012

Non ci resta che crescere. Riforme: chi vince, chi perde, come farle

Lavoce.info

Tommaso Nannicini

Non ci resta che crescere. Riforme: chi vince, chi perde, come farle

Dal welfare al fisco, dalle liberalizzazioni alla scuola, un libro (Università Bocconi Editore) raccoglie le risposte di vari esperti a quattro domande. Che cosa si può fare subito per rimettere in moto l’economia italiana? Che cosa nell’arco di due legislature? Quali interessi si oppongono alle riforme e come arginarli? Quali interessi avrebbero tutto da guadagnare e come mobilitarli? Pubblichiamo alcuni passi dell’introduzione del volume.

Le analisi raccolte in questo libro non si limitano a ricordare cosa dobbiamo fare per tornare a crescere, ma si concentrano su come farlo tenendo conto delle caratteristiche del campo politico. In altre parole, si tratta di individuare gli interessi che trarrebbero beneficio dalle riforme ma sono finora rimasti zitti in disparte, in modo tale da mobilitarli politicamente e convincerli che cambiare è possibile, anche in Italia. E individuare, allo stesso tempo, gli interessi che avrebbero tutto da perdere da un rimescolamento delle carte oggi sul tavolo, in modo tale da arginarli (politicamente, s’intende) o compensarli almeno in parte per le perdite che subirebbero, ammesso che siano legittime e sostenibili le loro pretese di compensazione.

RIFORME IN CERCA DI AUTORE. POLITICO
L'’Italia sta cambiando pelle. È vero, per il momento si tratta di un cambiamento sottotraccia, difficile da decifrare per la sua incapacità di farsi sistema. Agli occhi di chi ci osserva da fuori, sembriamo ancora un paese troppo innamorato dei propri vizi per cambiare davvero. La stagnazione della nostra economia negli ultimi due decenni, e le crisi di sfiducia o gli attacchi speculativi che colpiscono regolarmente il nostro debito pubblico sui mercati internazionali, ci parlano del fallimento di un’intera classe dirigente, non solo politica. Ognuno continua a rinchiudersi nella difesa di rendite non più sostenibili e officia riti privi di significato, in un gioco degli specchi per cui le riforme, come le discariche, sono necessarie, ma sempre da un’altra parte. Sperando che – qualora non sia più possibile scaricare il costo delle mancate riforme sulle generazioni future – questa volta siano gli impiegati tedeschi (a colpi di Eurobond o interventi della Bce) a tirarci fuori dalle secche in cui ci siamo infilati, per la nostra incapacità di cambiare un modello di sviluppo e d‘intervento pubblico nell’economia che non è più né sostenibile né equo.  (…)

Tuttavia, i semi del cambiamento sono già visibili. Nel paese si sta rafforzando una vera e propria constituency delle riforme: un insieme di elettori che potrebbero dare fiducia a un programma di profondo cambiamento del paese, a patto che gli sia spiegato in maniera esauriente, all’interno di una visione positiva del nostro futuro, tenendo insieme costi e benefici, efficienza ed equità. Giovani lavoratori tanto instancabili quanto flessibili, gravati da aspettative pensionistiche da fame; donne in cerca di una valorizzazione professionale che non schiacci il loro desiderio di famiglia; imprenditori con un’alta propensione al rischio e una scarsa dimestichezza con le relazioni politiche o «di categoria»; insegnanti e dipendenti pubblici poco gratificati all’interno di una scuola e di una pubblica amministrazione incapaci di valutare e valorizzare le proprie risorse umane; manager abituati a confrontarsi con il pungolo dei mercati; ricercatori sottopagati nonostante il prestigio internazionale della loro produzione scientifica; studenti con il gusto di viaggiare (magari low cost), consapevoli che, senza bisogno di essere esterofili, certe cose che funzionano all’estero non si capisce perché non debbano funzionare anche da noi: è fra questi elettori dispersi che si annida la speranza di un cambiamento reale, in attesa che qualcuno la faccia germogliare politicamente.
Che la si chiami «rivoluzione liberale», «agenda riformista» o semplicemente «big bang», poco importa: c’è una prospettiva di cambiamento che ha un programma e un potenziale elettorato, ma è in cerca di un autore. Politico. (…)

UNA GRANDE OPERA DI POTATURA
Per aggredire in profondità le cause del «dolce declino» dell’Italia, senza illudersi di poter continuare a scaricare i costi dell’aggiustamento sulle giovani generazioni, i contributi che seguono propongono ricette che ruotano intorno a una parola chiave: «selezione». Dobbiamoselezionare le risorse economiche e sociali, aprendo molti mercati e professioni oggi protette alla concorrenza, affinché le risorse disponibili vadano laddove sono più produttive. Dobbiamo selezionare le politiche pubbliche, perché se vogliamo aiutare chi resterà indietro, non possiamo permetterci di dare tutto a tutti.

Per dirla con una metafora, l’Italia ha bisogno di una grande opera di potatura. Dobbiamo potare qualche ramo della pianta per far sì che possa produrre più frutti. E non si tratta solo di tagliare rami secchi; purtroppo è un po’ più complicato: con la potatura, si devono tagliare anche i rami che hanno scelto di crescere verso l’interno. Lo si deve fare per lasciare spazio a quelli che crescono verso l’esterno, perché solo quelli servono alla pianta per fruttificare. E questo, fuor di metafora, in termini economici e sociali, è facile a dirsi ma difficile a farsi. È difficile perché si tratta di tagliare rami vivi, non secchi, parti del tessuto economico e sociale che hanno una loro capacità di sopravvivenza. Perché laddove noi vediamo delle rendite, qualcuno vede un diritto acquisito, un modo dignitoso per sbarcare il lunario. Non c’è niente di moralistico in questo. Anche a me piacciono le rendite: le mie. E la selezione, la meritocrazia, hanno dei costi, anche psicologici. Una cosa è fallire perché ci sono le raccomandazioni degli altri, le rendite degli altri, gli abusi di potere degli altri. Altra cosa se il fallimento avviene in un ambiente competitivo, dove la colpa finisce per ricadere sui miei limiti. Come diceva George Orwell, «il problema della concorrenza è che qualcuno vince». Tuttavia, quest’opera di potatura e selezione, per quanto costosa, è ormai indispensabile, perché i costi dell’assenza di dinamismo sono maggiori e cominciano a farsi insopportabili. Non esistono alternative se vogliamo valorizzare le risorse umane e materiali del nostro paese per tornare a crescere.
Insomma: la potatura non deve consistere in una crociata ideologica contro le rendite, ma in una politica capace di offrire una visione d’insieme. Se la politica ha una visione e indica un obiettivo raggiungibile (la crescita della pianta), anche qualche sacrificio (la potatura di qualche ramo) può essere accettabile. Altrimenti, senza visione, senza progetto, ognuno si rinchiude nella difesa del proprio ramoscello, nelle barricate corporative che hanno bloccato le riforme negli ultimi vent’anni. È proprio questo lo sforzo di questo libro: offrire una visione unitaria degli interventi che servono al paese, e individuare gli ostacoli politici che si sono finora frapposti alla loro realizzazione. Due gli ostacoli principali: ritardi culturali e difese corporative.

MERCATO, VALUTAZIONE E UNA NUOVA CLASSE DIRIGENTE
Se si vuole selezionare, non si può fare a meno di puntare su due altre parole chiave: «mercato» e «valutazione». Qui, però, casca l’asino. Perché mercato e valutazione sono concetti che provocano crisi di rigetto quando si tenta di impiantarli nella cultura collettiva degli italiani. Attratti da un generico egualitarismo di maniera e da retaggi ideologici anti-mercato, siamo sempre pronti a vedere l’ombra della disuguaglianza dietro a queste due parole. Il cortocircuito è poi alimentato dal fatto che questi tic culturali sono preda di capipopolo alla ricerca di facili consensi, oppure sono cavalcati da quelle lobby che si oppongono al cambiamento. Col risultato che, all’ombra della lotta alla disuguaglianza, mettono radice disuguaglianze basate sulle rendite di posizione piuttosto che sul merito. (…)

Per raccogliere una sufficiente massa critica di consenso tra i soggetti che avrebbero tutto da guadagnare dalle riforme – interessi diffusi, donne, giovani e neoborghesia dei flussi – è però necessaria una classe politica con le carte in regola. Idee giuste e visione d’insieme, da sole, non bastano. Serve una risorsa che in politica è un bene prezioso: la credibilità. Una risorsa che l’attuale classe politica sembra aver esaurito. Come rendere credibili, allora, politici chiamati a far passare nel paese una terapia shock di selezione? Innanzitutto, mettendo ordine a casa propria. Perché, francamente, è difficile convincere il paese che servono più merito e concorrenza, mentre si è immersi nella difesa delle proprie rendite e posizioni di potere. Prima di abbozzare qualsiasi delle riforme discusse in questo libro, la classe politica dovrebbe (senza altri annunci): dimezzare il numero dei parlamentari; ridurre gli enti territoriali; introdurre controlli a tutti i livelli sulle spese per collaboratori, sedi di rappresentanza e affini; instituire una commissione indipendente che valuti costi e benefici di enti e istituzioni sotto il controllo della politica e degli interessi organizzati (per esempio, le camere di commercio sono davvero utili?); realizzare ulteriori privatizzazioni che, ancor prima che far cassa, riducano gli spazi di potere discrezionale dei politici nazionali e locali.
L’attuale classe politica è prigioniera di vecchi tic: il gioco distributivo della Prima Repubblica o le scorciatoie populiste della Seconda sono le uniche vie di ricerca del consenso che conosce. Ogni tanto infiocchetta i propri discorsi con parole come «concorrenza», «meritocrazia», «innovazione», ma non ne coglie appieno la portata per il semplice fatto che non ha mai sperimentato nessuna di queste dimensioni. Occorre riaprire, quindi, i canali dell’impegno politico e della selezione della classe dirigente. Un messaggio politico è convincente solo se le persone che lo propongono ne sono convinte, perché, nel nostro caso, hanno vissuto sulla propria pelle i costi del mancato dinamismo. La Lega Nord ci è in parte riuscita nel suo campo: se si guardano i dati sulla provenienza professionale degli amministratori locali in Italia, si vede che l’avvento della Lega nel sistema politico ha creato una rottura evidente, portando nelle istituzioni categorie e professioni prima quasi assenti (piccoli imprenditori, professionisti). Anche questa forma di reclutamento sta dietro alla capacità della Lega di parlare con il popolo delle partite IVA. Chi si proporrà di far passare nel paese l’opera di selezione abbozzata in questo libro dovrà fare qualcosa di simile: aprendo le porte dell’impegno politico agli italiani che hanno voglia di crescere, a giovani, donne e apolidi dei flussi. (…)

ASPETTANDO BLAIR
Lo so: al momento non c’è traccia di tutto questo. I meccanismi di selezione della classe politica sono bloccati. E le misure per ridurre l’invadenza della politica sono proposte in un mese e rinviate quello dopo. Ma questo circolo vizioso può essere spezzato. Ne esistono le condizioni, perché i costi economici e sociali dell’immobilismo stanno crescendo e si sta formando nel paese una constituency delle riforme. Abbiamo risorse umane e materiali che pochi paesi possono vantare, che aspettano una prospettiva credibile per rimettersi a rischiare e crescere. Manca solo un imprenditore politico (leader o partito) che accenda la miccia. Un Tony Blair italiano che trovi il coraggio di rischiare di prendere qualche calcio, pur di smettere di stare immobile e inebetito a ricevere ceffoni. L’esito potrebbe essere dirompente. Sì, nonostante le insidie del dolce declino, c’è da essere ottimisti sul futuro dell’Italia. 

(Tratto da “Non ci resta che crescere“, UBE)