Da tempo, almeno da quando il declino della politica e dei partiti di massa ha impoverito il dibattito pubblico, schiacciandolo sul presente, le Considerazioni del governatore della Banca d’Italia sono un’occasione per alzare lo sguardo. La relazione di quest’anno, la seconda firmata da Fabio Panetta, non ha fatto eccezione ed è arrivata in un momento di forte incertezza globale. Tanto da rendere ancora più urgente intercettare le tendenze strutturali che, ci piaccia o no, segneranno in profondità le nostre economie. A partire dalle “4 D” del cambiamento con cui fare i conti: dazi, debito, digitale e demografia.
D come dazi. Secondo Banca d’Italia, nel breve periodo gli aumenti tariffari avranno un impatto limitato sulle imprese italiane che esportano negli Stati Uniti, grazie alla loro specializzazione in prodotti di qualità e a margini di profitto in grado di assorbire i rincari. Ma dietro ai dazi c’è di più: sono il sintomo di un contesto internazionale più incerto e conflittuale, che disincentiva gli investimenti e mette alla prova le strategie industriali di lungo periodo. Dal consenso di Washington siamo passati al conflitto. E le imprese, in assenza di alternative, si proteggono disinvestendo. Ridurre l’incertezza geopolitica non è compito loro. Spetta agli Stati. Ma siccome i singoli Stati europei da soli fanno fatica, ecco la prima implicazione indicata dal governatore: l’unico modo per difendere la nostra sovranità economica è spostarla a livello di Unione Europea, rafforzandola.
D come debito. Il debito globale di Stati, imprese e famiglie ha ormai raggiunto il 330% del prodotto mondiale. Una montagna cresciuta rapidamente dopo la pandemia, spinta da tassi d’interesse bassi e politiche fiscali espansive. Ora quella montagna va gestita, perché rischia di alimentare nuove crisi finanziarie e costringe i governi a muoversi nel “sentiero stretto” tra il sostegno alla crescita e la disciplina di bilancio. Questo non vuol dire tornare agli errori dell’austerità. Ma neanche sprecare risorse a colpi di Superbonus. Il Pnrr, in questa ottica, resterà una delle grandi occasioni mancate della nostra politica economica: quei debiti potevano (e dovevano) essere spesi meglio.
D come digitale. Mentre in Cina si investe in intelligenza artificiale e negli Stati Uniti si sogna di colonizzare Marte, in Italia si discute ancora di articolo 18 e causali nei contratti. Questo, ovviamente, la relazione del governatore non lo dice. Ma è il contesto in cui si inserisce il suo monito: “l’innovazione deve essere al centro della strategia economica”. La relazione ricorda che, sul fronte pubblico, l’Europa non è indietro: investimenti in ricerca scientifica e produttività accademica reggono il confronto con gli Stati Uniti. Sul fronte privato, però, non c’è partita: gli investimenti americani sono di gran lunga superiori. Paradossalmente, la crociata di Trump contro i luoghi della conoscenza – dove spesso nascono anche imprese innovative – può aprire uno spazio all’Europa: per attrarre chi fa ricerca alla frontiera ed è abituato a un sistema in cui il dialogo col mercato è la norma. Ma servono anche più investimenti, pubblici e privati, e meno gerontocrazia. Perché la voglia di applicare un’idea, di solito, ce l’hai da giovane.
Gli investimenti, di nuovo, non potranno che essere a livello europeo. Come scrive il governatore nella sua relazione: “L’esperienza di Next Generation EU dimostra che è possibile emettere debito comune per finanziare un piano ambizioso di investimenti europei, senza dover creare un’unione fiscale o istituire un Ministero delle Finanze europeo”. Vero, ma quell’esperienza dimostra anche che non funziona. Hic Rhodus, hic salta. O l’Europa fa un salto nella direzione di una vera unione fiscale che sia anche politica, o il divario competitivo con Stati Uniti e Cina non si chiuderà mai.
D come demografia. Per la prima volta dalla peste nera del 1300, arriveremo presto a una diminuzione della popolazione globale. Il contratto sociale del Novecento, fondato su un patto implicito tra generazioni, diventerà insostenibile. Le risposte adottate finora sono di breve periodo: politiche pro-nataliste; gestione dei flussi migratori; investimenti sociali per aumentare i tassi di partecipazione al lavoro, soprattutto di donne e giovani. Le prime, semplicemente, non funzionano. Un tempo si chiedeva alle persone di fare figli per la patria, oggi per l’Inps. Il risultato è parimenti insoddisfacente. Le altre due strategie, richiamate esplicitamente da Panetta, sono utili. Abbiamo bisogno di entrambe. Ma, di fronte alle tendenze demografiche in atto, rischiano di essere presto superate. Serviranno riforme più radicali: a partire dal superamento di un welfare puramente contributivo e dall’individuazione di nuove forme di fiscalità, non solo sulle persone ma sui processi.
Insomma, per affrontare le “4 D” del cambiamento, non basteranno leggi di bilancio o riforme. Dovremo riscrivere il contratto sociale del Novecento: quell’insieme di regole, scritte e non scritte, che ci lega come individui e come comunità. Il vero interrogativo è se la politica che ci ritroviamo sia in grado di adempiere a un compito che fa tremare i polsi. Sarebbe già un passo avanti se cominciasse, perlomeno, a prenderne coscienza.
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