«Dire che il referendum abolirà il Jobs act è una fake news». Tommaso Nannicini, economista, ex senatore del Pd, è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al coordinamento delle politiche economiche e sociali nel governo Renzi e uno dei padri della riforma del Jobs act che i quesiti referendari vogliono abrogare.
«Questa è una falsità: se vincesse il sì il Jobs act non verrebbe cancellato».
I promotori dei referendum, a partire dalla Cgil, però sostengono il contrario, chi ha ragione?
«Quello che il segretario della Cgil Maurizio Landini vuole far abrogare è un solo decreto attuativo su 8, che nel caso venisse abrogato non abolirebbe l’intera riforma. Ma il punto è un altro: quello che si chiede di abolire del Jobs act in realtà non esiste già più».
A cosa si riferisce?
«Al decreto legislativo che il primo quesito chiede di abrogare, sui licenziamenti illegittimi e il reintegro previsto per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 addetti: viene chiesto di abolire le tutele crescenti del Jobs act e di fatto di tornare alla situazione precedente, cioè alla legge Monti-Fornero del 2012».
E questo ritorno in cosa si traduce?
«A un indennizzo in caso di licenziamento che diminuisce e torna a 24 mesi, anziché i 36 previsti dal Jobs act».
Non tornerebbero il diritto di reintegro per licenziamento illegittimo uguale per tutti e le tutele?
«Sì, ma significa anche escludere in caso di licenziamento discriminatorio o disciplinario le tutele risarcitorie e reintegratorie per alcune categorie per le quali il Jobs act invece le aveva previste, come i lavoratori di sindacati e partiti, o i licenziamenti per malattia e disabilità: la riforma Monti-Fornero non le prevedeva».
Se vincesse il sì dunque quelle categorie di lavoratori potrebbero essere a rischio?
«Sì. Si rischia un peggioramento solo per avere lo scalpo di una norma che di fatto era già stata superata con l’intervento della Corte costituzionale che dava al giudice la facoltà di stabilire quanto indennizzare il lavoratore, anche con il massimo indipendentemente dall’anzianità, di decidere caso per caso, bloccando quindi le tutele crescenti secondo cui l’indennizzo era in base all’anzianità del lavoratore».
È un errore lasciare questa discrezionalità a un giudice?
«L’idea del Jobs act era favorire le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani, ma anche dare certezza e stabilità nel rapporto tra azienda e lavoratore: doveva sostenere il lavoro stabile».
Il Jobs act era perfetto?
«Certamente no. Ci sono state delle parti mai decollate davvero, come quella sulle politiche attive che resta un’incompiuta. Bene gli ammortizzatori anche se allora le risorse non furono molte. Si può mettere mano al Jobs act, fare una “manutenzione”, ma non con l’accetta del referendum usata contro un simbolo che nel frattempo è anche cambiato».
Serve una nuova legge sui licenziamenti?
«Io credo che il mercato del lavoro abbia bisogno di altro. Il problema non sono i licenziamenti ma i salari troppo bassi, su questo deve intervenire il Parlamento. E ci sarebbe bisogno di un salto di qualità del tessuto produttivo che invece non c’è stato».
Lei andrà a votare?
«Sì, 3 no e 2 sì».