Globalizzazione e regolazione politica

Tommaso Nannicini
Economia/#globalizzazione

La politica al tempo della paura. Il valore della fatica della democrazia – Associazione ProDemos. 

Responsabilità, mobilità e governo sovranazionale. Il mio discorso al convegno dell’Associazione ProDemos

Governare la globalizzazione 

Vi ringrazio per l’invito e per il bel titolo di questa mini-sessione: “Globalizzazione e regolazione politica: le promesse non mantenute”. Un titolo che sposta l’accento su un tema secondo me fondamentale: le promesse non mantenute non sono quelle della globalizzazione; sono quelle della politica e del governo del cambiamento. Perché è la politica che doveva gestire quei processi e redistribuire i vantaggi di una nuova fase di sviluppo. È la politica che doveva redistribuire risorse dai vincenti verso i perdenti della globalizzazione. “Redistribuzione” deve tornare a essere una parola non più estranea a un orizzonte e a un programma di centrosinistra, in modo che ci sia un aumento non solo del Pil ma anche di tutta una serie di indicatori di benessere collettivo, e soprattutto ci sia consenso sociale intorno a certi processi di sviluppo.

Questo era già chiaro quindici anni fa. Se con la mente – e mi scuso per riferimenti che suonano un po’ autoreferenziali – torno al 2002, periodo dei movimenti no global e del Social Forum di Firenze, mi rivedo studente di dottorato che si cimentava in convegni e pubblicazioni un po’ noiose sulla globalizzazione. Ricordo i convegni che organizzavo per “Libertà Eguale”, in cui dicevamo che da quei movimenti sorgeva la domanda “giusta”, ma era il nemico (la globalizzazione, appunto) a essere “sbagliato”. La risposta non stava nel buttare via la globalizzazione ma nel governarla, redistribuendone i vantaggi. Il problema è che in questi quindici anni siamo andati avanti a organizzare convegni, mentre quelle promesse sono divenute occasioni perse: non abbiamo trovato la risposta giusta alla domanda giusta. E adesso il nemico di allora, sbagliato quanto si vuole, rischia di essere buttato via.

Promesse non mantenute – ripeto – dalla politica e dalle forze sociali (in generale da chi doveva governare il cambiamento), non tanto dalla globalizzazione. Adesso è un po’ démodé fare i cantori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, ma alcuni dati nella loro crudezza sono abbastanza evidenti. La mortalità infantile e anche la mortalità femminile legata al parto si sono ridotte della metà dal 1990 a oggi nel mondo; ogni giorno, dal 1990 ad oggi, 130mila persone sono uscite dalla soglia Onu della povertà assoluta; la popolazione che viveva sotto la soglia di povertà assoluta nel 2003 era il 48%, nel 2013, solo 10 anni dopo, si era ridotta al 29%. Tutti traguardi, nella povertà come nei tassi di mortalità, che i paesi sviluppati ci hanno messo quasi un secolo a raggiungere. Molte parti del pianeta, invece, sono riuscite a compiere queste imprese nell’arco di uno o due decenni, in maniera molto più rapida.

Se guardiamo il famoso “grafico dell’elefante”, che ormai citiamo in tutti i nostri convegni, ciò che ci colpisce è la proboscide: che è il marchio di fabbrica dell’elefante e rappresenta la crescita dei redditi alti e la stagnazione dei redditi dei ceti medio-bassi nei paesi sviluppati. Però non dobbiamo dimenticarci del corpaccione di quell’elefante, che vuol dire per esempio che il reddito mediano, sotto il quale sta il 50% della popolazione mondiale, è cresciuto del 75% nell’arco di due decenni. Che c’è stato quindi uno sviluppo internazionale forte e preponderante. Questo non vuol dire che va tutto bene e che dobbiamo affidarci solo alle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, ma che dobbiamo governare quei processi per redistribuirne i vantaggi, consapevoli di che cosa rappresentino e di come si possa ambire a governarli.

Perché quando sentiamo qualcuno che, legittimamente, spaventato di fronte al cambiamento, in ansia di fronte ai costi individuali che quel cambiamento può finire per imporgli, manifesta e rivendica il diritto alla tranquillità, a “fare quello che facevano le generazioni che ci hanno preceduto”, a “fare il lavoro che facevano i nostri genitori”, dobbiamo essere consapevoli che da qualche parte nel mondo stiamo condannando qualcuno a fare quello che facevano i suoi genitori, cioè morire di fame senza avere opportunità. La risposta non può essere il diritto all’immobilità sociale, perché l’immobilità sociale non è un diritto. Esiste un diritto a non essere lasciati soli nel cambiamento, questo sì, ma non un diritto a stare fermi. Il problema è che se nessuno si prende cura di chi subisce i costi del cambiamento, allora è inevitabile che qualcuno preferisca che il mondo si fermi o, perlomeno, che lo lasci scendere.

Per carità, non possiamo cavarcela con risposte facili, dobbiamo sentire tutto il peso della responsabilità di governare la globalizzazione e i processi di cambiamento. Ma nemmeno possiamo eliminare dal lessico di una forza di sinistra i concetti di internazionalismo e di centralità del lavoro, magari per sostituirli con la centralità del tempo libero, perché tanto al lavoro ci penseranno i robot. Internazionalismo e centralità del lavoro sono invece i due fari che devono continuare a guidarci nel tentativo di governare la globalizzazione.

Troppe promesse non mantenute

Ma quali sono le promesse non mantenute del governo della globalizzazione, quali le risposte che non abbiamo saputo dare in questi due decenni? Non abbiamo saputo governare e arrestare un aumento delle disuguaglianze nei paesi sviluppati. Sempre guardando ai dati degli Stati Uniti, nel 1980 l’1% più ricco della società statunitense aveva il 10,7% del reddito (che pure era già tanto) mentre il 50% più povero, ovvero la metà della popolazione statunitense, deteneva il 20%. Il punto è che nel 2014, solo 24 anni dopo, questi numeri si sono rovesciati: l’1% più ricco ha il 20% del reddito statunitense, il 50% più povero ne ha il 12,5%. E questo solo per quanto riguarda il reddito. Perché le disuguaglianze ormai non si misurano solo sul reddito: pensate alle disparità di opportunità sociali, alle disparità nel livello d’istruzione, alle disparità di salario e benefici a cui posso accedere in base alle capacità competitive dell’impresa in cui lavoro.

Si sono creati troppi muri fra mondi diversi. C’è un aumento delle disuguaglianze che non abbiamo saputo governare e c’è un tema di costi di aggiustamento. “Costi di aggiustamento” è l’espressione molto antipatica che usano gli economisti per dire “sì, alla fine i vantaggi della globalizzazione sono più dei costi”, salvo specificare in una nota a fondo pagina che però, nella transizione, ci possono essere appunto dei costi di aggiustamento che qualche individuo, qualche fascia sociale, qualche area del paese può finire per dover sopportare. Ecco, la politica non si è presa cura dei costi di aggiustamento e delle persone che ne subivano gli effetti più da vicino.

Questo fenomeno c’è sempre stato, sia chiaro: i costi di aggiustamento legati ai processi di cambiamento non sono un’invenzione della globalizzazione. C’è una bellissima ballata blues, e poi anche jazz, che è quella di John Henry: un lavoratore afroamericano di fine Ottocento che a un certo punto decide di sfidare, con la forza dei propri muscoli, la perforatrice pneumatica che da poco veniva usata nella costruzione dei tunnel. La canzone è molto triste, perché ovviamente il buon John non fa una bella fine; nonostante la sua forza fisica e la sua forza di volontà, finisce per soccombere nella sfida con la macchina. Ecco: la politica non può dire ai John Henry di ieri e di oggi che sono solo un costo di aggiustamento, perché se vengono lasciati soli a loro non resta nient’altro da fare che sbattere la testa contro la sfida impossibile di fermare il cambiamento. Tocca invece alla politica prendersene cura, accompagnandoli nella fatica del cambiamento.

Si badi bene: come ci ricorda anche la ballata di John Henry, il governo del cambiamento non è una cosa che scopriamo oggi che siamo davanti a questa benedetta globalizzazione, all’automazione, all’intelligenza artificiale e ai robot che distruggono il lavoro. Il cambiamento dell’economia non è una cosa che ci inventiamo oggi. C’è sempre stato. Come potete intuire dalla “c” aspirata, io vengo dalla Toscana e nella mia zona eravamo famosi per i cappelli: c’era un orgoglio imprenditoriale e anche operaio legato ai cappellifici. Poi, a un certo punto, le persone hanno smesso di portare i cappelli (gli economisti lo chiamano “shock della domanda”).Che cosa abbiamo fatto? Beh, non abbiamo richiesto una legge con cui lo Stato obbligasse tutti i dipendenti pubblici a portare cappelli per sostenere la domanda. Tutti insieme – imprenditori lungimiranti, forze sociali, sindacato e istituzioni ai vari livelli – ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cercato di anticipare il cambiamento per, appunto, governarlo.

Ovviamente non è facile e dicendo questo non voglio sembrare sbrigativo: i cambiamenti con i quali ci confrontiamo oggi sono molto rapidi. Alcuni economisti leggono l’evoluzione del mercato del lavoro come una corsa continua tra il progresso tecnologico, che crea ricchezza ma distrugge posti di lavoro, e l’istruzione, che invece crea nuove opportunità. Se il progresso tecnologico corre più veloce, anche l’altro concorrente della corsa deve aumentare il passo. La politica, quindi, deve correre di più se vuole governare questi cambiamenti. E con questo non voglio dire che governare il cambiamento sia un compito solo della politica: la politica deve fare la sua parte, ma poi c’è una responsabilità sociale e collettiva più ampia nel governo di questi processi.

Ma è difficile negare una responsabilità della politica. Per carità, non voglio fare quello che arriva dopo e dice “prima andava tutto male”. La politica in questo paese ha sempre fatto anche grandi cose: ci sono stati passaggi importanti rispetto alle risposte di governo del cambiamento, nella costruzione di benessere e coesione sociale, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica. Tuttavia, abbiamo sempre avuto un assetto politico istituzionale che si è preso poco cura del futuro: durante la Prima Repubblica gestendo la politica economica, e anche il consenso, con politiche distributive scaricate sulle future generazioni a colpi di debito pubblico. E nella Seconda Repubblica, rimettendo sì i conti in ordine, ma senza anticipare i cambiamenti per governarli. Magari firmando qualche accordo internazionale giusto, che di lì a vent’anni si sapeva avrebbe prodotto degli effetti sulla sostenibilità di certi distretti e di certe produzioni, ma senza creare quell’aggiustamento che in quei vent’anni avrebbe permesso di anticipare il cambiamento per chi produceva e lavorava in quei distretti. Oppure firmando qualche accordo per la regolazione del sistema bancario, ma senza mettere in atto quei processi di governo del cambiamento che anticipassero questi shock.

Prendersi cura del futuro

La politica, nella Prima e nella Seconda Repubblica, si è sempre presa poco cura del futuro. Adesso si tratta di farlo e non è semplice perché abbiamo ancora – non vi preoccupate: non parlo del 4 dicembre 😉 – un assetto politico-istituzionale che ha troppe fragilità e che finisce per creare una congenita debolezza della politica. Una politica che finisce per non essere adatta a fare scelte lungimiranti, a prendersi cura del futuro. In più, dobbiamo scontrarci anche con alcune difficoltà oggettive in questa sfida. Se dovessi usare solo pochi concetti, pochi assi politico-culturali rispetto ai quali misurare questa capacità di governare il cambiamento, giocherei su tre parole: la prima è “responsabilità”; la seconda è “mobilità”; e la terza è “governo sovranazionale” (cioè, strumenti di regolazione e di risposte della politica che agiscono a livello sovranazionale).

Responsabilità. Perché abbiamo bisogno di un aggiustamento strutturale in cui chi è in grado di correre deve farlo, creando innovazione e disegnando mondi nuovi, ma nello stesso tempo a chi resta indietro deve essere garantita una seconda chance, degli strumenti per rimettersi in gioco. Ma, come per il primo non deve trattarsi di mera deregolamentazione, per il secondo non deve trattarsi di mero assistenzialismo: perché ci sia una vera alleanza tra merito e bisogno, tra chi corre e chi resta indietro, le risposte della politica devono basarsi sulla responsabilità, su un concetto di libertà attiva, per dirla con Dahrendorf, o di cittadinanza attiva. Una libertà responsabile in cui chi corre sa che ha delle responsabilità in termini di fiscalità e redistribuzione, e chi resta indietro sa che non verrà lasciato solo di fronte all’ansia e alle paure del cambiamento, ma ha la responsabilità di rimettersi in gioco e di partecipare a percorsi di attivazione sociale e lavorativa.

La seconda parola è mobilità. Abbiamo bisogno di maggiore mobilità nel mondo imprenditoriale, nel mercato del lavoro, e anche di mobilità sociale. Dobbiamo rimettere in moto un ascensore sociale che si è bloccato. E abbiamo bisogno di strumenti di governo che non si limitino al perimetro dello Stato nazionale ma trovino risposte nuove. Abbiamo bisogno di strumenti di governo sovranazionale, la terza parola.

Concordo con quanto è stato detto in precedenza: la sfida della fiscalità è cruciale, soprattutto a livello internazionale. Oggi giustamente tutti abbiamo paura di Trump e del trumpismo nella sua declinazione neo-protezionistica. Dei dazi e delle gabelle sui prodotti dobbiamo avere giustamente paura, perché per noi gli Stati Uniti sono un mercato di sbocco importante. Ma in fondo al protezionismo sappiamo anche come rispondere. Quello che mi fa ancora più paura è il piano di riforma fiscale dell’amministrazione Trump. Magari non vedrà mai la luce ma, se dovesse vederla, stiamo parlando della creazione del più grande paradiso fiscale che si sia mai visto, in cui, di fatto, c’è una cash-flow taxation tutta basata sull’origine del prodotto: mi basta giocare un po’ con il transfer pricing e non viene tassato niente in uscita, solo in ingresso. Esattamente come portare il tax rate sui redditi d’impresa a zero per chi produce in loco. Noi possiamo arrabattarci nelle pieghe del bilancio, come abbiamo fatto col governo Renzi, per portare l’Ires dal 27,5% al 24%, ma ovviamente una competizione 24 a zero è persa in partenza. Di conseguenza, in un’economia sempre più immateriale e sempre più globalizzata, dobbiamo capire come riuscire a far correre chi crea profitti, ma nello stesso tempo richiamandolo alla responsabilità della redistribuzione.

Al Lingotto, mi è capitato di usare questa battuta: non dobbiamo tassare i robot, come suggerisce Bill Gates, ma casomai dobbiamo tassare meglio Bill Gates. Il senso è che il progresso tecnologico deve correre e chi sa creare profitti grazie a questo progresso è un nostro alleato. Allo stesso tempo, però, dobbiamo avere strumenti non spuntati per tassare quella base imponibile. Una base imponibile che non deve sparire magicamente il giorno dopo che è stata prodotta, altrimenti diventa impossibile reggere un modello sociale come quello europeo e un governo della globalizzazione che si faccia carico di una nuova redistribuzione. Questo vuol dire solo una cosa: Europa. Il piano fiscale di Trump, negli Stati Uniti, trova la dura opposizione di Wal Mart, la catena di supermercati, che importa e non esporta. Vogliamo lasciare il futuro del modello sociale europeo nelle mani di Wal Mart? O l’Unione Europea ha qualcosa da dire?

Serve un’Europa che disegni una base imponibile unica sui redditi da capitale, che non si faccia competizione aggressiva al proprio interno e che risponda con una voce unica alla competizione aggressiva che può venire dall’altra parte dell’Atlantico. Serve un’Europa che porti avanti quell’esperimento unico di governo sovranazionale che ha saputo rappresentare nell’intuizione dei suo fondatori.

Responsabilità, mobilità e governo sovranazionale: governare il cambiamento non è una passeggiata e nemmeno un pranzo di gala. Se puntiamo sulla responsabilità, dobbiamo sapere che la risposta più facile e vincente da un punto di vista politico potrebbe essere quella della deresponsabilizzazione, quella per cui al lavoro pensano i robot e si riduce tutto a un reddito di cittadinanza puramente assistenziale. Se puntiamo sulla mobilità e quella mobilità non è governata (per cui troppi e sempre gli stessi restano indietro), il richiamo della chiusura nel proprio orticello potrebbe rivelarsi politicamente imbattibile. Se non costruiamo strumenti istituzionali nuovi a livello sovranazionale, infine, l’idea di un governo internazionale della globalizzazione sarà un bel tema per i nostri convegni, ma resterà una promessa politica astratta, che lascerà spazio alla tentazione di buttare via il bambino con l’acqua sporca, bloccando, chiudendo e riducendo questi processi.

Non voglio semplificare, quindi: governare la globalizzazione è un compito da far tremare i polsi. Ma non vedo grandi alternative. Per dirla con il titolo del vostro convegno, questa è la fatica della democrazia, che è anche la fatica (e l’ansia) del cambiamento. Fatemi però concludere dicendo che queste due fatiche – della democrazia e del cambiamento – sono anche la bellezza della politica.