«Io voglio crescere»

Tommaso Nannicini
Democrazia/#riforme

Come sprigionare le energie che possono rimettere in moto l’Italia

XII Assemblea annuale di LibertàEguale, 17‐18‐19 settembre 2010

Palazzo del Capitano del Popolo, Orvieto.

“Io voglio crescere” è l’aspirazione di tante italiane e italiani, giovani o meno giovani, che rivendicano il diritto di essere artefici del proprio futuro, di investire su se stessi per crescere sul piano professionale e personale. A volte è il grido di chi non ne può più di sbattere la testa contro il muro di gomma delle rendite (altrui) e delle (troppe) barriere all’entrata nel mondo del lavoro, delle professioni, della politica. A volte è la sommessa richiesta di chi vorrebbe far attecchire anche in Italia metodi di selezione (delle classi dirigenti, ma non solo) basati su criteri di merito facilmente misurabili piuttosto che su criteri quali la conoscenza personale o la fedeltà di gruppo. A volte è il sogno inconfessato di chi pensa di valere di più, perché sarebbe riuscito a emergere comunque anche in un contesto aperto al merito e alla concorrenza. Quale che sia la forma in cui si esprime (ammesso e non concesso che riesca a esprimersi), si tratta del disagio di chi vorrebbe mettersi in gioco, ma non riesce a farlo. Perché si trova di fronte a un gioco senza regole o le cui regole non gli lasciano nessuna chance, al di là dell’impegno che è disposto a profondere o delle capacità che è disposto a mettere alla prova.

Alcuni li abbiamo sentiti oggi, con molti altri dovremmo sforzarci di dialogare, andando a cercarli in giro per il paese. Perché è importante dare voce e opportunità concrete a questa voglia di crescere. È importante per due motivi: il primo ha a che fare con l’economia, e il secondo ha a che fare con la politica. Con l’economia, perché liberare queste energie – nel privato così come nel pubblico – è l’unico modo per scuotere dal torpore un paese impigrito, dove produttività e investimenti stagnano da troppi anni (o meglio, decenni). È l’unico modo, in altre parole, per far tornare l’Italia a crescere. Con la politica, perché liberare queste energie è l’unico modo per aggregare consenso (per costruire un blocco sociale, si sarebbe detto una volta) intorno a quelle riforme di apertura alla concorrenza e alla mobilità sociale – “le riforme dei riformisti” – di cui parliamo da anni senza riuscire a farle passare; che non è cosa da poco per chi si occupa di politica e non di pura speculazione intellettuale. E, ancora, ha a che fare con la politica perché il Pd ha bisogno, come l’aria per respirare, di aprire le porte dell’impegno politico e della selezione delle sue classi dirigenti a nuove esperienze, che rendano credibili le nostre proposte di cambiamento di fronte al paese. Perché la credibilità di una proposta politica dipende a filo doppio dalla credibilità della classe politica che la propone, dal fatto che quelle proposte arrivino da chi ci crede davvero, da chi ne ha sperimentato e ne sperimenta i costi in prima persona. Ma vediamo questi due aspetti in ordine: economia e politica.

L’Italia è già a pieno titolo dentro una sindrome “giapponese” e rischia di scivolare sul piano inclinato di una sindrome “argentina”. Basta pensare che il Giappone, nel 1996, aveva un PIL pro capite superiore del 27% agli Stati Uniti; mentre nel 2006, il PIL giapponese era inferiore del 23%. Cosa era successo nel frattempo? Una crisi dalle dimensioni colossali? No, semplicemente, nell’arco di dieci anni, l’economia giapponese era rimasta al palo della stagnazione, mentre l’economia statunitense aveva continuato a crescere (tra l’altro con ritmi inferiori rispetto ad altri paesi emergenti). Di lenti declini è piena la storia economica. Francesco Giavazzi, dalle pagine del Corsera, non smette di ricordarci che l’Argentina della prima metà del ‘900 era un paese molto ricco: più ricco dell’Italia che doveva ancora sperimentare il miracolo economico post‐bellico. Oggi, in quanto a reddito pro‐capite, l’Argentina si confronta con paesi usciti dai disastri della pianificazione come la Romania, piuttosto che con l’Italia.

Italia che, da par suo, conosce già da un paio di decenni cosa significa crescere poco. Dal 1995 al 2008, nell’arco di tempo della cosiddetta Seconda Repubblica per cui sono disponibili i dati OCSE, l’Italia ha avuto una crescita cumulata del 19%, fanalino di coda dei paesi sviluppati insieme al già citato Giappone, mentre nell’ordine – e solo per fare qualche esempio – Finlandia, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti sono cresciuti più del doppio, oltre il 40%. Questo significa che mentre questi paesi potranno raddoppiare il tenore di vita in 20‐25 anni, l’arco biologico di una generazione, gli italiani dovranno aspettare pazientemente un secolo, quattro generazioni. La Francia, nello stesso periodo, è cresciuta del 28% (se 10 punti percentuali in più vi sembrano pochi), mentre la Germania (altro ex malato europeo in termini di crescita) si è attestata sul 21%. Ma – attenzione – i cugini francesi e tedeschi hanno accresciuto la produttività totale dei fattori (l’indice che gli economisti usano per misurare la capacità dell’economia di accrescere efficienza e innovazione) rispettivamente del 13% e del 14%; mentre negli altri paesi di cui sopra (Spagna esclusa) la produttività è cresciuta a ritmi intorno al 20%. In Italia, invece, la crescita della produttività ha fatto registrare uno zero spaccato. Insomma, altro che crisi finanziaria internazionale: i nostri problemi non nascono oggi e sono tutti nostri. Basta con i capri espiatori: la globalizzazione e gli immigrati a destra; il liberismo selvaggio e gli squilibri dell’economia di carta inventata da avidi e potenti speculatori a sinistra. Nossignori, i nostri problemi – come il declino del sistema educativo e la stagnazione degli investimenti – siamo bravi a crearceli da soli. Se la nostra classe dirigente cercherà di cavalcare capri espiatori, si comporterà come quei genitori che, per quieto vivere familiare, danno ragione ai figli che imputano la colpa dei loro brutti voti ai professori. Come se i nodi non venissero poi al pettine, al momento dell’ingresso (dei cattivi studenti) nel mondo del lavoro.

E i nodi per l’economia italiana stanno venendo al pettine. Come ci insegna la storia economica (Gianni Toniolo ha scritto belle pagine su questo), il declino economico nasce dall’incapacità di adattare un vecchio modello produttivo a una realtà profondamente mutata: per citare la solita Argentina, all’inizio del ‘900 si poteva essere ricchi producendo grano e carne, oggi non più, ma c’è voluto quasi un secolo per rendersene conto. L’incapacità di adattamento è tanto maggiore quanto più il vecchio modello ha avuto successo. E questo vale anche per l’Italia di oggi. In fondo, grazie alla bellezza della nostra storia e geografia, al miracolo dello sviluppo nel secondo dopoguerra, e – diciamocelo – al debito pubblico (che ha lasciato lo stato povero, ma le famiglie italiane relativamente ricche), in Italia non si vive male. Dati i livelli di reddito raggiunti, possiamo mandare avanti la baracca e goderci il quieto vivere senza stress per altri decenni. Accettando, in cambio, che risorse preziose vadano all’estero per valorizzare le loro capacità. E che le famiglie che non hanno accumulato ricchezza grazie allo sviluppo del dopoguerra, o al debito pubblico dei decenni successivi, siano le prime a scivolare sotto la soglia di povertà. È l’alternativa del dolce declino. Un declino lento, poco percepibile, finché i suoi effetti saranno così diffusi che il costo di ignorarli diventerà insopportabile, portando a rotture magari anche traumatiche. Ma esistono già adesso forze ed energie, aree del paese e generazioni, che avvertono sulle loro spalle, in maniera forte, i costi del mancato cambiamento. Sono le forze del merito, dell’impegno e del bisogno, che non trovano spazio per liberarsi, restando imbrigliate in un reticolo di interessi costituiti che non mollano il passo, di istituzioni che non si adeguano e di tabù culturali duri a morire. Perché è sul terreno dell’economia che si manifesta il declino, ma le cause ultime sono istituzionali, sociali, culturali e politiche: è lì che agisce il freno a mano tirato.

In queste condizioni, è molto difficile anticipare i tempi, cambiare prima che sia troppo tardi. Ma è compito di una politica che ha cuore il futuro del paese e gli interessi delle nuove generazioni provarci. Le ricette, le politiche per sbloccare l’Italia, in buona parte le conosciamo: sono quelle che abbiamo chiamato le “riforme dei riformisti”. E ruotano, secondo me, intorno a una parola chiave: selezione. Dobbiamo selezionare le risorse economiche e sociali, aprendo molti mercati e professioni protette alla concorrenza, affinché le risorse disponibili vadano laddove sono più produttive. Dobbiamo selezionare le politiche pubbliche, perché se vogliamo aiutare chi resterà indietro, non possiamo permetterci di dare tutto a tutti. Dobbiamo spiegare che i diritti sociali, i diritti materiali, hanno un costo e per questo, a differenza dei diamanti (e dei diritti di prima e seconda generazione), non sono per sempre; è compito della politica, di volta in volta, indicare le priorità: quali interessi sono meritevoli di tutela e quali sono chiamati a farcela da soli. E dobbiamo, anche, selezionare i selezionatori, rendendo più efficaci i meccanismi di selezione delle classi dirigenti che saranno chiamate a questa rivoluzione copernicana. Perché se non sono credibili loro, o per mancanza di convinzione, o per sudditanza verso gli interessi legati allo status quo, non andiamo da nessuna parte.

Per dirla con una metafora, l’Italia ha bisogno di una grande opera di potatura. Dobbiamo potare qualche ramo per rinverdire la pianta. E non si tratta solo di tagliare rami secchi…purtroppo è un po’ più complicato: con la potatura, si devono tagliare anche i rami che hanno scelto di crescere verso l’interno. Lo si deve fare per lasciare spazio a quelli che crescono verso l’esterno, perché solo quelli servono alla crescita della pianta. E questo, fuor di metafora, in termini economici e sociali, è facile a dirsi ma difficile a farsi. È difficile perché si tratta di tagliare rami vivi, non secchi, parti del tessuto economico e sociale che hanno una loro capacità di sopravvivenza. Perché laddove noi vediamo delle rendite, qualcuno vede un diritto acquisito, un modo dignitoso per sbarcare il lunario. Come si diceva con una battuta magari
non politicamente corretta ma molto efficace sul sito Noise from Amerika: siamo tutti meritocratici con il “fondoschiena” degli altri. Non c’è niente di moralistico in questo. Anch’io a volte sono un estimatore delle rendite: le mie. E la selezione, la meritocrazia, hanno dei costi, anche psicologici. Una cosa è fallire perché ci sono le raccomandazioni degli altri, le rendite degli altri, gli abusi di potere degli altri. Altra cosa se il fallimento avviene in un ambiente competitivo, dove la colpa finisce per ricadere sui miei limiti.

Questa potatura è un’operazione difficilissima, ma necessaria. Perché i costi del mancato cambiamento e dell’assenza di dinamismo cominciano a farsi insopportabili. E qui arriviamo al punto cruciale della nostra discussione. Al punto che ha a che fare con la politica. Perché queste benedette riforme, così necessarie al paese per evitare il crinale del dolce declino, non siamo stati in grado di farle passare in questi anni, in cui abbiamo avuto responsabilità di governo? Per cui, lasciatemelo dire, diventa anche puerile tutto questo addossare le responsabilità al governo di centrodestra di turno, quando molti problemi partono da lontano e noi non siamo stati capaci di aggredirli quando avremmo potuto. Come se i problemi della scuola italiana nascessero con la Gelmini, o se la stagnazione della produttività fosse imputabile al ritardo nella nomina di un ministro per lo sviluppo economico. Non scherziamo.

La risposta, a questa domanda politica sul perché non siamo stati capaci di far passare le riforme, è duplice. Paghiamo un ritardo culturale. E paghiamo un ritardo nella costruzione del consenso (se volete: nella costruzione del blocco sociale “riformista”).

Paghiamo un ritardo culturale perché la battaglia politica (per l’egemonia culturale, si sarebbe detto un tempo) nel centrosinistra, noi riformisti, non l’abbiamo mai vinta, o non l’abbiamo mai fatta seriamente. Per cui secondo qualcuno eravamo diventati tutti liberisti in preda a una sbornia collettiva. Ma poi a conti fatti di riforme che sbloccassero i mercati e la società ne abbiamo fatte ben poche. E appena ci ha colpito la crisi internazionale, ecco che è scattato subito il richiamo della foresta: e via con il coro contro il mercato selvaggio, il liberismo senza regole. Come se i problemi dell’Italia fossero quelli. E guardate che questa battaglia culturale la si fa all’opposizione, non si aspetta di andare al governo (e per questo il periodo 2001‐06 resterà un’occasione mancata da questo punto di vista). È quello che ha fatto Tony Blair: per cambiare il paese, devi cambiare il tuo partito. È quello che non hanno fatto i liberali britannici e adesso pagano il prezzo del frettoloso adeguamento ideologico per sostenere i tagli alla spesa sociale del governo di coalizione con i conservatori.

Ma paghiamo anche un ritardo nella costruzione del consenso, perché il peso di chi si è avvantaggiato del vecchio sistema di sviluppo e di tutele è sproporzionatamente forte proprio nel centrosinistra. Per cui non si muove foglia senza che gli interessi costituiti legati allo status quo non vogliano. Questo non può essere un alibi per un’azione riformatrice. I blocchi sociali si spezzano e si ricompongono, si costruiscono e si motivano. È questo il compito della politica. E adesso si apre qualche spiraglio: perché i costi del mancato cambiamento cominciano a farsi pesanti per molti, per tanti giovani (e meno giovani) i cui talenti e la cui voglia di impegnarsi per realizzare i propri sogni rimangono mortificati. Magari potremmo sfruttare a nostro vantaggio anche il “senso della famiglia” degli italiani (che per altri versi è un freno al dinamismo). Ormai, sono tanti i genitori preoccupati per le scarse opportunità dei propri figli in un’economia stanca e disattenta al merito. O i nonni che non ne possono più di allungare la paghetta a nipoti che fanno fatica a trovare la propria strada. C’è un insieme di interessi che ha molto da guadagnare nel lasciare il porto delle vecchie sicurezze per veleggiare in mare aperto, investendo su impegno e capacità. Spetta a noi intercettarli e motivarli. Se c’è una politica che ha una visione e indica un obiettivo raggiungibile (la crescita della pianta), anche qualche sacrificio (la potatura di qualche ramo) può essere politicamente realizzabile.

Facciamo qualche esempio di cosa voglia dire fare una battaglia culturale e sfidare interessi costituiti forti a sinistra per sprigionare le energie che hanno voglia di crescere.

Quando parliamo di scuola e università, e sentiamo la litania sulla difesa della scuola pubblica e dell’università pubblica, penso che dovremmo dire con chiarezza che a questa scuola pubblica e a questa università pubblica non dobbiamo dare un euro in più, in primo luogo per rispetto verso le tante energie, verso i tanti giovani, le cui competenze professionali e voglia di fare sono mortificate da un sistema che non funziona, che ha incentivi alla rovescia. Un euro in più a questa università non andrà a premiare chi si fa il mazzo per pubblicare su riviste scientifiche internazionali, ma andrà a rafforzare chi gli mette i bastoni tra le ruote per consolidare il proprio potere. Prima, si cambiano gli incentivi, creando un ambiente aperto al merito e alla valorizzazione del sapere, poi – questo sì – si lancia un grande programma di investimenti in capitale umano, per cui la spesa in istruzione e università diventa la priorità della spesa pubblica italiana, perché è lì che si gioca il nostro futuro. E come lo si fa? Come si cambiano radicalmente gli incentivi di chi lavora nella scuola e nell’università? Per esempio, realizzando le proposte che Andrea Ichino sulla scuola e Roberto Perotti sull’università ci ripetono da tempo. Seguendo esperienze consolidate in altri paesi, è ora che l’Italia si doti di un sistema di valutazione, nazionale e standardizzato, dei livelli di apprendimento degli studenti di elementari, medie e superiori. Solo con un grande esame su scala nazionale, gestito da valutatori esterni alle scuole e corretto in modo centralizzato, si potrà poi perseguire efficacemente il duplice obiettivo di premiare i capaci e i meritevoli (usando i risultati del test per l’ammissione ai livelli successivi d’istruzione e per l’erogazione di borse di studio) e di individuare gli studenti o gli insegnanti in difficoltà con lo scopo di aiutarli. Una volta realizzata questa nuova “infrastruttura” nazionale, inoltre, sarà possibile valutare compiutamente il contributo netto di ogni scuola (o dei docenti) sui risultati degli studenti, controllando per la qualità degli studenti in entrata e per le condizioni socio‐economiche delle famiglie. Sulla base di obiettivi chiari e di una reale autonomia, quindi, sarà possibile indirizzare le risorse verso le realtà che lo meriteranno. Perché non può esserci autonomia senza responsabilità. E non può esserci responsabilità senza una valutazione credibile. In un quadro in cui incentivi e valutazione vanno nella giusta direzione, si dovrebbe pensare anche a forme di liberalizzazione del reclutamento e della remunerazione economica dei professori.

Quando sentiamo parlare di bassi salari, del fatto che ormai i giovani entrano nel mercato del lavoro con remunerazioni ridicole e contratti precari, non possiamo nascondere che questi problemi nascono da quelle rigidità che proteggono chi nel mercato del lavoro c’è entrato molto prima e con ben altre garanzie. Perché il salario non è una variabile indipendente, ma è una funzione della produttività (che non cresce) e delle opportunità alternative che i lavoratori possono far valere sul mercato. Se il mercato è ingessato e le opportunità scarseggiano, i salari non crescono e i costi della flessibilità delle imprese finiscono per ricadere solo sulle generazioni entrate da poco nel mercato del lavoro. Non si tratta di agitare divisioni o scontri generazionali, ma di guardare in faccia la realtà e rendere credibili (politicamente) le nostre proposte. Come possiamo credibilmente parlare di estensione degli ammortizzatori sociali ai giovani del lavoro flessibile senza ammettere l’errore che abbiamo fatto quando al governo, appena ci sono stati due spiccioli da spendere, li abbiamo usati per abolire lo scalone previdenziale e aiutare generazioni già ampiamente tutelate dal nostro sistema di welfare, senza fare niente per la riforma degli ammortizzatori sociali? Continuiamo da anni a parlare di riequilibrio del welfare in chiave “meno pensioni, più welfare”, “meno ai padri, più ai figli”, non per accanimento polemico o per infiammare scontri generazionali, ma semplicemente perché in questi anni si è fatto troppo poco per porvi rimedio. Ai sindacati dobbiamo dire in tutta franchezza che non ha senso fare barricate sull’età pensionabile e agitare scontri sul “diritto” alla pensione, quando sappiamo benissimo che per intere generazioni l’età pensionabile è un concetto inafferrabile, perché quando arriverà il loro turno, quale che sarà l’età pensionabile sul piano legale, dovranno continuare a lavorare, perché il combinato disposto di metodo contributivo e basse dinamiche salariali all’inizio della carriera le avrà portate a maturare una pensione troppo bassa. Non è forse giusto (di sinistra, mi verrebbe da dire) chiedere un sacrificio alle generazioni vicine alla pensione per aiutare chi è stato lasciato solo a sostenere i costi della flessibilità? Magari finanziando forme di sostegno alla contribuzione previdenziale nei periodi di inattività di chi passa da un contratto a tempo a un altro.

E, ancora, quando sentiamo parlare di politica industriale, dovremmo rispondere semplicemente: “no, grazie”. No grazie, perché la politica industriale che ha in mente chi la propone attribuisce alla politica compiti impropri. Non è compito della politica individuare i settori, i beni e i servizi, che possono vincere la sfida dell’innovazione e del mercato. Questo compito spetta alla creatività e alla voglia di crescere delle italiane e degli italiani. Tra le “cronache di un paese bloccato” che abbiamo raccolto oggi, avrebbe dovuto esserci anche quella di Fabrizio D’Aloia (trattenuto da un impegno), un giovane ingegnere e imprenditore che ha lanciato nella provincia di Benevento un’azienda di scommesse sportive online. La sua azienda impiega quasi cento persone ad alto capitale umano (ingegneri, statistici, informatici). E sorge in una zona industriale dove pullulano edifici mai finiti, triste lascito di iniziative imprenditoriali che hanno goduto degli aiuti alle imprese per lo sviluppo del Sud (i vari obiettivi 2, 3, e chi più ne ha più ne metta), magari grazie all’aiuto di qualche amico politico. Ecco, la mia paura è che la politica industriale di cui si parla ci consegnerebbe tanti cantieri interrotti, tante fondamenta lasciate alla furia delle intemperie, piuttosto che aziende dinamiche come quella di Fabrizio D’Aloia. Il quale, per crescere e creare occupazione di qualità al Sud, non chiede politica industriale, ma investimenti in capitale umano, infrastrutture e maggiore concorrenza (magari rintuzzando il potere dell’ex monopolista di turno).

E, infine, quando sentiamo parlare di difesa della centralità dell’intervento pubblico, dovremmo rispondere che la difesa del pubblico non passa per le cantilene sul fallimento del mercato e del liberismo selvaggio, reso palese – secondo alcuni – dalla recente crisi finanziaria. La difesa del pubblico, usando quella severità di giudizio che è più pungente verso le cose più care, si ciba dell’obiettivo di infondere la cultura della valutazione, della selezione e del risultato in tutti i gangli dell’intervento dello stato. È questo l’unico modo (serio) per difenderlo.

Concludo riprendendo il tema di come selezionare i selezionatori. Come rendere credibile la classe politica che sarà chiamata a far passare nel paese questa terapia shock di meritocrazia, selezione e concorrenza. Lo si fa, innanzitutto, rinverdendo e aprendo i canali dell’impegno politico e della selezione della classe dirigente. Perché, francamente, è difficile convincere il paese che servono più merito e concorrenza, mentre si è immersi nella difesa delle proprie rendite e posizioni di potere. E perché un messaggio del genere è tanto più credibile quanto più le persone che lo propongono ne sono convinte, perché hanno vissuto sulla propria pelle i costi del mancato dinamismo. La Lega Nord ci è in parte riuscita nel suo campo: se si guardano i dati sulla provenienza professionale degli amministratori locali in Italia, si vede che l’avvento della Lega nel sistema politico ha creato una rottura evidente, portando nelle istituzioni categorie e professioni prima quasi assenti (piccoli imprenditori, professionisti). Anche questa forma di reclutamento – non solo i capri espiatori della globalizzazione e degli immigrati – sta dietro alla capacità della Lega di parlare con il popolo delle partite IVA. Noi dobbiamo fare lo stesso: aprendo le nostre porte, le porte dell’impegno politico, alle italiane e italiani che hanno voglia di crescere (magari ripensando come conciliare la necessaria dose di professionismo politico con canali di reclutamento aperti alla società, in entrata e in uscita). E lo dobbiamo fare rendendo più aperta e concorrenziale la selezione delle candidature che contano. Tutti chiamiamo Porcellum la legge elettorale con liste bloccate. Ma quella legge si chiama cosi perché permette ai partiti di fare porcate, non perché obbliga i partiti a fare porcate. Quindi, alla fine della fiera, se la usi per rafforzare il potere delle oligarchie e dei gruppi dirigenti in carica, poi non sei credibile nel lanciare il messaggio che tu quella legge non l’hai voluta e vuoi cambiarla.

Permettetemi di concludere con una citazione da un libro che non è uscito proprio l’altroieri: La scuola dei dittatori, di Ignazio Silone. Scrive Silone, per bocca di Tommaso il Cinico, che le classi dirigenti di una democrazia in crisi non ignorano le scelte che potrebbero risolvere i problemi, ma sono impotenti, incapaci di metterle in atto. “Una classe dirigente in declino vive di mezze misure, giorno per giorno, e rinvia sempre allʹindomani lʹesame delle questioni scottanti. Costretta a prendere decisioni, essa nomina commissioni e sottocommissioni, le quali terminano i loro lavori quando la situazione è già cambiata. Arrivare in ritardo significa chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Significa anche illudersi di evitare le responsabilità, lavarsene le mani, per mostrarle bianche e pure agli storici futuri. Il colmo dellʹarte di governo per i democratici dei paesi in crisi sembra consistere nellʹincassare degli schiaffi per non ricevere dei calci, nel sopportare il minor male, nellʹescogitare sempre nuovi compromessi per attenuare i contrasti e tentare di conciliare lʹinconciliabile”. Sembra, purtroppo, la cronaca degli ultimi anni. Ebbene, spetta anche a noi mettere in campo una forte battaglia politico‐culturale che spezzi questo circolo vizioso. Dobbiamo avere il coraggio di rischiare di prendere qualche calcio, pur di smettere di stare immobili e inebetiti a ricevere ceffoni. Il paese potrebbe stupirci. Potremmo scoprire che ci sono tante energie pronte a farsi contagiare dall’entusiasmo di questa battaglia politica, a patto che chi la propone sia pronto a farsi contagiare dalla loro voglia di crescere.