Le bugie su Quota 100 e gli invisibili del reddito di cittadinanza

Tommaso Nannicini
Lavoro/#riforme

La mia relazione in aula al Senato su reddito di cittadinanza e pensioni.

Onorevoli Senatori,

Tutte le audizioni effettuate dalla Commissione lavoro sul decreto-legge in esame, pur nella consueta diversità di accenti e interessi, hanno sollevato forti dubbi sia sul disegno complessivo sia sui dettagli attuativi del provvedimento. Nonostante questo coro di critiche, la Commissione ha esaminato e approvato il decreto-legge senza tenere in alcun conto le osservazioni dei soggetti auditi e respingendo tutti gli emendamenti dei gruppi di opposizione (sottolineo: “tutti”). Ancora una volta il Parlamento è stato espropriato delle sue prerogative. Questo il metodo fin qui adottato. Ma vediamo nel merito quali sono i cardini del decreto-legge, quali le critiche formulate dal Gruppo del Partito democratico alle singole misure e quali, infine, le misure alternative proposte.

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È impossibile dare un giudizio sul decreto-legge in esame senza partire dalla Legge di bilancio 2019, visto che questo provvedimento rappresenta il cuore della politica economica del Governo per i prossimi anni. Reddito di cittadinanza e interventi sulle pensioni non arrivano infatti da Marte, ma dalle scelte irresponsabili compiute in quella sede. Essi vanno letti all’interno di una visione di politica economica che sta già dispiegando i suoi effetti recessivi in virtù del taglio degli investimenti, dell’aumento del costo del denaro e del deterioramento delle aspettative. La maggioranza ha scelto deliberatamente di far pagare al Paese un prezzo elevatissimo, materiale e di reputazione, per finanziare a qualunque costo il Reddito di cittadinanza e la cosiddetta «Quota 100» per le pensioni.

Questo decreto-legge vede dunque la luce per spendere rapidamente – in maniera frettolosa, più che urgente – le risorse a questo fine stanziate dalla Legge di bilancio (commi 255-258 della Legge 30 dicembre 2018, n. 145): 17 miliardi di euro per i prossimi tre anni per il Reddito di cittadinanza, ulteriori rispetto alle risorse già stanziate dai governi Renzi e Gentiloni per il contrasto alla povertà (4,9 miliardi di euro nel 2019, 5,9 miliardi nel 2020 e 6,2 miliardi nel 2021, che si sommano ai circa 2,2 miliardi di euro annui derivanti dall’abolizione del Reddito di inclusione dal 2019); ai quali vanno aggiunti 21 miliardi di euro nel triennio per le pensioni anticipate (4 miliardi di euro nel 2019, 8,3 miliardi nel 2020 e 8,7 miliardi nel 2021).

Si tratta di 38 miliardi di euro in tre anni: risorse ingenti con effetti nulli – se non negativi, come nel caso dei prepensionamenti – sulla crescita potenziale dell’economia italiana. Ed effetti redistributivi fortemente iniqui, ancora una volta soprattutto per le misure sulle pensioni.

Il primo problema da evidenziare è che queste risorse sono “finte” in due, diverse, accezioni: (1) sono solo nominalmente finanziate da aumenti della pressione fiscale a partire dal 2020 (cioè da nuove clausole di salvaguardia su Iva e accise), che il Governo ha già detto più volte di non voler far scattare sul serio; (2) finanziano interventi che, nel caso delle pensioni, sono temporanei nella loro durata e quindi destinati a creare, in prossimità della loro scadenza, forti pressioni per il loro prolungamento con ulteriori aumenti di spesa.

Rispetto al primo punto, se si considerano gli impegni di spesa per il 2020 e il 2021, nonché le nuove clausole di salvaguardia introdotte dall’ultima Legge di bilancio per un totale di 14 miliardi nell’arco del biennio, vediamo che il 48 per cento dei soldi pubblici che coprono gli interventi del presente decreto-legge, semplicemente, non esiste. Un euro ogni due è una finzione contabile. Quei soldi andranno trovati con la prossima Legge di bilancio, nel mezzo di una recessione e con nuove promesse di spesa da accomodare. Auguri.

Rispetto al secondo punto, la bomba a orologeria che si sta piazzando sotto la possibilità di onorare in futuro i diritti previdenziali e assistenziali degli italiani è sconcertante.

Tanto per iniziare non c’è nessuna «Quota 100», ma al limite «Quota 62+38»: la somma fa 100, ma non è «Quota 100», perché per andare in pensione bisogna maturare entrambi i requisiti minimi, cioè 62 anni di età e 38 anni di contributi. Come ci ha raccontato il Presidente dell’Inps in audizione in Commissione, presso i loro uffici non si contano le persone, la cui somma di età e contributi fa 100, che scoprono di non aver diritto alla pensione. Ancora una volta, si alimentano irresponsabilmente aspettative destinate a generare la domanda di nuovi interventi futuri.

Soprattutto, «Quota 100» non è una riforma strutturale, ma è solo una misura una tantumdella durata di tre anni. Non c’è nessun superamento della riforma Fornero. C’è solo l’ennesimo canale, frammentato e temporaneo, di accesso alla pensione anticipata. Non è neanche una misura-tampone. «Quota 100» è semplicemente una lotteria. Se maturi i requisiti richiesti da qui alla fine del 2021, bingo. Altrimenti, arrivederci e grazie.

Pensiamo a due persone che hanno iniziato a lavorare lo stesso giorno e hanno pagato esattamente gli stessi contributi, per gli stessi anni, nell’arco della loro vita: entrambi raggiungeranno l’agognata vetta di 38 anni di contributi nel 2021. L’uno compirà 62 anni nel dicembre 2021, l’altro nel gennaio 2022. Ebbene, grazie al provvedimento che stiamo per approvare, il primo andrà in pensione a 62 anni, il secondo a 67 anni. Tra i due lavoratori il governo ha frapposto un mega “scalone” di 5 anni, a fronte di un’identica anzianità contributiva e di una differenza di età di appena un mese. È equo? È sostenibile politicamente? Che succederà alla fine della lotteria nel 2022? Ci sono solo due possibilità: lasciare lo scalone di cinque anni o rifinanziare la finta «Quota 100», facendo saltare i conti del sistema previdenziale. Altro che superamento della riforma Fornero. Con queste scelte irresponsabili si prepara il terreno per una «Fornero 2 – La vendetta», cioè per una riforma ancora più dura dettata, come già accaduto in passato, dall’irresponsabilità di chi l’ha preceduta.

Le scelte che la maggioranza si appresta a scrivere non più sulla sabbia dei programmi elettorali, ma sulla pietra dei diritti acquisiti, lasciano spazio solo a tre scenari possibili: (1) aumentare le tasse dal 2020 per un volume maggiore di quanto fatto dal governo Monti in condizioni di emergenza finanziaria e, ancora una volta, con l’economia in recessione; (2) rimangiarsi le promesse e tagliare già dal prossimo anno gli interventi di cui stiamo discutendo; (3) uscire dall’Euro. Quarto non è dato.

Non è un caso che gli esponenti intellettualmente più onesti della maggioranza facciano fatica a nascondere l’unico, vero, orizzonte che sta dietro a questo bluff: recuperare la sovranità monetaria. Uscire dall’Euro è l’unica follia che può dare un senso a una politica economica che un senso non ce l’ha. Non solo per riportare la sovranità monetaria da Francoforte a Roma, ma per rimetterla nelle mani della politica, senza quella fastidiosa indipendenza di cui gode la Banca d’Italia dopo il «divorzio» dal Tesoro avvenuto nel 1981. Cambiamento sì, ma con lo sguardo rivolto al passato. Un passato i cui danni pesano ancora come un macigno sulla nostra economia e sulle generazioni future.

Richiamare questi scenari non significa vestire i panni dei tristi ragionieri che predicano la dura legge delle compatibilità. Tutt’altro. Per dirla con Stephen Holmes e Cass Sunstein: “una teoria dei diritti non disposta a calarsi dalle vette della morale nel mondo reale, dove le risorse sono scarse, sarà profondamente incompleta perfino dalla prospettiva morale”. Spacciare illusioni e usare il futuro come una discarica non è solo un atto da irresponsabili. Vuol dire mettere a rischio gli interessi dei più deboli per l’ennesimo bluff elettorale.

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Ma veniamo adesso ai limiti più evidenti del decreto-legge, partendo a ritroso dal Capo II (articoli 14-26). Come detto, non c’è nessun superamento della riforma Fornero e nessuna modifica strutturale del sistema previdenziale. Solo una lotteria temporanea di tre anni a vantaggio di poche generazioni. Ma a chi andranno i 21 miliardi di euro in tre anni spesi per questo intervento? Chi ha vinto il biglietto della lotteria di «Quota 100»? Lo hanno vinto, come detto, i lavoratori che compiranno 62 anni di età entro il dicembre 2021 potendo vantare storie contributive sufficientemente robuste. Grazie alle audizioni, abbiamo anche il loro identikit: sono lavoratori maschi che hanno maturato pensioni molto più alte della media. Non solo: quelli che riceveranno il premio maggiore hanno pensioni calcolate in larga parte col metodo retributivo. Sono dunque persone che la lotteria l’avevano già vinta con la riforma Dini del 1995, venendo esclusi dal calcolo contributivo anche soltanto pro quota. Insomma, i soliti noti del welfare all’italiana. Non i più deboli, ma categorie elettoralmente ben rappresentate.

Tra loro, stando alle prime domande di queste settimane, sono sovra-rappresentati i dipendenti pubblici, ponendo problemi aggiuntivi di funzionamento della macchina pubblica a fronte di flussi di prepensionamento non programmati, senza che ci siano né risorse certe, né il superamento dei limiti alle assunzioni indispensabili per poterli rimpiazzare. È una situazione che rischia di paralizzare a breve termine la macchina amministrativa in comparti cruciali come la sanità e la scuola e che, sebbene del tutto prevedibile, non ha trovato alcuna adeguata contromisura da parte del Governo. Al contrario, con buona pace per la propaganda sul ricambio generazionale nella PA, è stata aggravata dal mantenimento del blocco delle assunzioni nelle amministrazioni statali fino a novembre 2019.

Ma chi paga per il costo di questa lotteria? Lo pagheranno tutti i pensionati con assegni superiori a 1.500 euro lordi, a cui con il nuovo blocco delle indicizzazioni si torna a mettere le mani in tasca, togliendogli 1,2 miliardi di euro all’anno. Lo pagheranno i giovani, per i quali questo decreto-legge non stanzia un centesimo a sostegno dell’adeguatezza delle loro pensioni future e addirittura carica sulle generazioni future 38 miliardi di euro aggiuntivi di debito implicito del sistema pensionistico, secondo le stime INPS. Lo pagheranno le donne, con carriere tipicamente più discontinue e irregolari, che non riusciranno ad accedere a «Quota 100», né a farsi riconoscere a fini contributivi il lavoro di cura familiare. Lo pagheranno i lavoratori impegnati in attività gravose o usuranti e in generale tutte le categorie più deboli. Perché con tutte le risorse impiegate si poteva e si doveva fare qualcosa anche per loro. Pensate a un lavoratore edile che a 62 anni deve ancora salire su un’impalcatura. Dovrà continuare a farlo, perché non ha 38 anni contributi, quasi impossibili da raggiungere in un settore come l’edilizia. Pensate a un infermiere che fa i turni di notte; a un autotrasportatore – sia esso lavoratore dipendente o autonomo – alla guida di un furgone fin da giovane; a un disoccupato che a 62 anni ha finito la Naspi e non ha raggiunto 38 anni di contributi; a una persona che a 62 anni deve ancora lavorare e prendersi cura della madre non autosufficiente. Per loro «Quota 100» non serve a niente e sarebbe servita semmai «Quota 92». Ci sarebbero state le risorse per mandare in pensione tutte queste persone con 30 anni di contributi, non con 38, ma con misure mirate e selettive che partissero da loro. Perché non tutte le condizioni di lavoro e personali sono uguali. Non tutti i lavori sono uguali. E in un mondo di risorse scarse la politica ha il dovere di distinguere, di fare delle scelte.

Gli emendamenti del Gruppo del Partito Democratico proponevano questo cambio di prospettiva. Proponevano di utilizzare 3 miliardi di euro degli 8 disponibili ogni anno per le persone in difficoltà, per le donne e per i giovani. Liberando allo stesso tempo risorse – i 5 miliardi di euro residui – per la crescita e l’occupazione, con un taglio del costo del lavoro stabile e il rilancio degli investimenti pubblici e privati. Con le nostre proposte alternative, non solo si sarebbe resa strutturale l’Ape sociale ma, dopo una sperimentazione che ha evidenziato il problema di platee troppo ristrette e difficili da raggiungere, si sarebbe allargato il suo perimetro permettendo di andare in pensione con «Quota 92»: a tutti i disoccupati senza limitazioni, alle persone con disabilità, alle persone che assistono un familiare non autosufficiente, a tutti i lavoratori, dipendenti o autonomi, impegnati in occupazioni usuranti o gravose, intese in un’accezione sempre selettiva ma più ampia.

Non solo. Con le nostre proposte alternative, si sarebbe riconosciuto il lavoro di cura delle lavoratrici, introducendo vantaggi contributivi per chi ha avuto figli o ha assistito familiari con disabilità. Si sarebbe prolungata fino al 2022 l’Opzione donna, per poi farla convergere verso una nuova, più equa, flessibilità in uscita all’interno del sistema contributivo. Si sarebbe risolto definitivamente il problema degli ultimi 6.000 “esodati”. E si sarebbe finalmente introdotta una pensione contributiva di garanzia a tutela dei giovani con carriere discontinue e redditi bassi, per i quali l’adeguatezza della pensione è a rischio nel sistema contributivo: 750 euro di importo minimo mensile, incrementato di 15 euro per ogni anno di contribuzione superiore al ventesimo, fino a un massimo di 1.000 euro mensili. Persone in difficoltà, donne, giovani. E risorse aggiuntive per la crescita. Erano queste le priorità da scegliere a parità di spesa e non l’utilizzo delle risorse pubbliche per dare vantaggi a pioggia per soli tre anni, incuranti di quanto accadrà domani.

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Veniamo, adesso, al Reddito di cittadinanza (Capo I, articoli 1-13). La migliore sintesi su questa misura è quella data dall’Alleanza contro la povertà, cioè da quella vasta rete di rappresentanza di enti territoriali, organizzazioni sindacali, enti e associazioni del volontariato e del Terzo settore, che è da sempre in trincea nella lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. L’Alleanza contro la povertà ha giustamente detto: “maggiori risorse, peggiori risposte”. Perché è vero che è stato mobilitato un investimento senza precedenti, ma è anche vero che a costruire la prima misura e infrastruttura nazionale per il contrasto alla povertà sono stati nella scorsa legislatura i governi di centrosinistra, che hanno creato da zero il Reddito di inclusione, portando in pochi anni l’investimento pubblico a quasi 3 miliardi di euro all’anno, se si considerano anche le risorse di fonte europea mobilitate per il finanziamento dei servizi sociali. Progettato e attuato in concorso con la stessa Alleanza contro la povertà, il Reddito di inclusione era anche un disegno di governance che prevedeva un’infrastruttura di servizi cui destinare strutturalmente il 20 per cento delle risorse del Fondo Povertà.

Invece di potenziare quello strumento dotandolo delle risorse necessarie a raggiungere gli obiettivi per i quali era stato costruito, il Governo ha scelto di smantellarlo e sostituirlo con una misura priva di un disegno e di una vocazione univocamente riconoscibili. Il Reddito di cittadinanza è uno strumento ibrido e confuso. Uno strumento che sovrappone finalità di assistenza e di inclusione sociale, quali quelle già perseguite dal Reddito di inclusione, con finalità di sostegno al reddito e di reinserimento lavorativo tipiche degli istituti assicurativi contro la disoccupazione come la NaSpI.

È una scelta tre volte sbagliata. Perché la crescita occupazionale del Paese non passa attraverso politiche assistenziali di spesa, quanto piuttosto attraverso investimenti e riforme economiche e sociali, come quelle avviate nella scorsa legislatura. Perché la lotta alla povertà richiede risposte complesse e non può essere affrontata con una visione basata sull’assunto che il povero ha un unico bisogno, il lavoro, o altrimenti un’unica colpa: non averlo. Perché in questo modo si cancellano tutte le dimensioni non lavoristiche della povertà – quelle connesse a salute, istruzione, responsabilità familiari, relazioni personali, condizioni psicologiche, disabilità – e si lasciano fuori dalla mappa della povertà, paradossalmente, proprio gli ultimi tra gli ultimi.

Nel passaggio dal Reddito di inclusione a quello di cittadinanza molti poveri diventano invisibili

Sono invisibili, innanzitutto, i bambini e le famiglie numerose. Dopo una crisi economica che ha triplicato l’incidenza della povertà minorile, il Governo ha scelto di difendere il feticcio ideologico dei “780 euro” per singolo individuo, piuttosto che guardare ai bisogni dei bambini poveri e delle famiglie con figli.A differenza del Reddito di inclusione che utilizzava la scala ISEE per quantificare il beneficio economico spettante a ciascuna famiglia secondo il numero e la tipologia dei suoi componenti (adulti, bambini, persone con disabilità, ecc.), il Reddito di cittadinanza prevede una scala di equivalenza che “premia” irragionevolmente i singoli e “punisce” le famiglie, soprattutto se numerose e con bambini. Una scala di equivalenza mai vista in un sistema maturo di welfare. Mentre le famiglie con figli minori raggiunte dal Reddito di inclusione erano il 53% del totale, con il Reddito di cittadinanza la loro incidenza si dimezza (27%). Quasi la metà dei nuclei beneficiari dell’intervento sarà composto da un solo componente.

Non solo. Le famiglie povere che fino a oggi trovavano nei servizi sociali dei Comuni un canale unico di accesso e immediata presa in carico, con l’introduzione del Reddito di cittadinanza non hanno più alcun obbligo di preventiva attivazione per accedere al beneficio economico e una volta ammesse sono smistate verso percorsi tra loro non comunicanti, dipendenti esclusivamente dallo stato di occupazione o di occupabilità dei componenti del nucleo. Alla fine, il Reddito di cittadinanza lascia quasi due terzi delle persone beneficiarie (64%) prive di qualunque rete di sostegno e presa in carico da parte dei servizi pubblici. Ciò significa privare le famiglie con figli minori – quelle tipicamente più fragili e bisognose – di un’occasione obbligatoria di contatto con i servizi sociali dei comuni. E significa privare i bambini poveri di servizi scolastici, sociali, e sanitari indispensabili per affrontare la povertà minorile in tutte le sue dimensioni, a partire da quella più terribile perché di norma trasmessa da una generazione all’altra: la povertà educativa.

Allo stesso modo, sono invisibili le persone con disabilità e le loro famiglie. La scala di equivalenza del Reddito di cittadinanza non solo non fa crescere il beneficio economico oltre il terzo figlio, ma non prevede maggiorazioni nemmeno per i familiari, adulti o minori, con disabilità. A parità di numero di componenti, una famiglia che ha al suo interno bambini e/o persone con disabilità avrà un Reddito di cittadinanza sempre inferiore a quello di una famiglia dove non ci sono. Non c’è nessun aumento del beneficio o nessuna facilitazione per accedervi rivolto alle famiglie con all’interno persone con disabilità, nonostante le condizioni soggettive di bisogno siano spesso una causa di scivolamento verso la povertà. Non c’è nessuna attenzione particolare sui servizi da rivolgere a queste famiglie. Per di più, nel decreto non c’è traccia dell’annunciato aumento delle pensioni o degli assegni di invalidità civile, che restano fermi all’importo di 285 euro al mese, contro i 780 euro del Reddito di cittadinanza. C’è invece – e qui al danno si aggiunge la beffa – una norma assurda e restrittiva per cui le pensioni e gli assegni di invalidità (in deroga alla normativa vigente) peseranno nel calcolo del reddito familiare per accedere al Reddito di cittadinanza. Col risultato addirittura di penalizzare le persone con disabilità nell’accesso al beneficio. I nostri emendamenti puntavano a correggere questi errori: in particolare, a sottrarre le pensioni di invalidità dal computo del reddito per accedere al beneficio e a introdurre nella scala di equivalenza una maggiorazione per familiari con disabilità. In Commissione sono stati ignorati, ma li riproporremo in Aula.

Sono invisibili i disoccupati, quelli che hanno perso il lavoro e ancora non si trovano sotto la soglia di povertà. Per loro, non solo non c’è alcun rafforzamento degli strumenti di sostegno al reddito, ma il decreto addirittura sospende l’unica misura nazionale di politica attiva già funzionante – l’Assegno di ricollocazione introdotto dal Jobs Act – per riservarlo ai soli percettori del Reddito di cittadinanza. Una scelta tanto dannosa quanto insensata, considerato che solo un terzo dei beneficiari del Reddito di cittadinanza sarà concretamente attivabile e potrà giovarsi del servizio di assistenza intensiva alla ricerca del lavoro garantito dall’Assegno di ricollocazione. Ci era stato raccontato che il Reddito di cittadinanza era destinato ai lavoratori minacciati dalla globalizzazione e dall’automazione: ora scopriamo che per avere una garanzia del reddito i robot devono averci rubato non solo il lavoro, ma anche la casa! Eppure, c’erano risorse e strumenti sufficienti per proteggere i disoccupati prima che diventino poveri e allo stesso tempo rafforzare la rete di protezione per i poveri! Sarebbe bastato raddoppiare le risorse già destinate al Reddito di inclusione, raggiungendo così tutte le famiglie in povertà assoluta all’interno del disegno di quell’intervento, e utilizzare le risorse residue (2,5 miliardi di euro) per rafforzare ed estendere la garanzia del reddito ai disoccupati oltre i confini dell’attuale NASpI. Con quelle risorse si poteva introdurre un “Salario di disoccupazione” non solo più esteso e premiale per tutti i disoccupati (l’85% dell’ultimo stipendio, con decalage solo dal sesto mese), ma anche più flessibile e calibrato sulle specifiche esigenze di tutela delle persone, per esempio attraverso l’eliminazione del decalage per gli over 50 e l’estensione temporale della copertura per degli under 35. È quanto abbiamo proposto con i nostri emendamenti, non trovando ascolto.

Sono invisibili gli stranieri, anche quando regolarmente residenti in Italia da molti anni e perfettamente integrati. Per escluderli dal Reddito di cittadinanza si è innalzato fino a dieci anni il requisito di residenza con una norma che – già di dubbia legittimità costituzionale – è stata resa in Commissione ancora più iniqua e discriminatoria con l’introduzione dell’obbligo di acquisire le certificazioni anagrafiche e patrimoniali nei Paesi di origine. Ciò significa che una lavoratrice straniera, con regolare permesso di lungo soggiorno UE, che vive e lavora per 9 anni e 11 mesi in una famiglia italiana assistendo un anziano o un malato, alla morte della persona assistita perde allo stesso tempo vitto, alloggio e reddito. E non può chiedere il Reddito di cittadinanza. Uno scandalo.

Sono invisibili, paradossalmente, anche gli italiani che rientrano in Italia dopo un periodo di studio o di lavoro all’estero. Il requisito della residenza ameno decennale finisce per colpire anche loro. Non potranno accedere al Reddito né gli anziani che tornano in Italia al termine della vita lavorativa, né i giovani che rientrano dopo periodi prolungati di studio o lavoro all’estero. Un giovane che ha fatto il cameriere a Madrid per quattro anni e torna in Italia per motivi familiari o di salute, finché non trova lavoro non può avere alcun sussidio: né la NASpI, né il Reddito di cittadinanza.

Sono invisibili, ancora, le persone senza fissa dimora. Almeno 50mila individui, tra italiani e stranieri, in condizioni di grave deprivazione materiale, che non possiedono una residenza anagrafica, sono del tutto esclusi dal Reddito di cittadinanza. E in mancanza del riconoscimento quanto meno di una residenza fittizia e di forme specifiche di presa in carico da parte dei Comuni e dei servizi sociali territoriali, sono destinati a rimanere ai margini della società. Anche su questo, il Gruppo del Partito democratico ha proposto emendamenti che sono stati del tutto ignorati.

Infine, è invisibile il Terzo settore. Con il passaggio dal Reddito di inclusione a quello di cittadinanza cambia il modello di governance della misura nazionale di contrasto alla povertà. Perdono centralità i servizi sociali dei Comuni e si ridimensiona il ruolo dei soggetti che sul territorio sono da sempre i principali avamposti di trincea nella lotta contro la povertà: gli enti del Terzo settore. Nella nuova impalcatura del Reddito di cittadinanza, in virtù di una visione parziale e meramente “lavoristica” della povertà, si dà invece un’enfasi nominalistica ai servizi per l’impiego, ma con un disegno confuso fatto di navigator precari che magicamente dovrebbero trovare posti di lavoro e sovrapposizioni di funzioni e strumenti tra enti nazionali e regionali. Un pasticcio che renderà prive di qualsiasi impatto le condizionalità inserite nel decreto-legge con inutile e burocratica dovizia di particolari.

In compenso, si vedono – eccome – le nuove sanzioni penali. La nuova disciplina punisce con la reclusione da due a sei anni chiunque, al fine di ottenere il Reddito di cittadinanza, renda dichiarazioni false oppure ometta informazioni dovute. Si tratta di una pena persino più elevata rispetto a quelle previste per le fattispecie delittuose di falso commesse da un pubblico ufficiale, che sono ben più gravi di quelle commesse da un privato. Per paradosso, un povero avrebbe più convenienza a rubare quanto gli serve per vivere, sapendo di incorrere in una pena da sei mesi a tre anni, piuttosto che rischiare di sbagliare la domanda per accedere al Reddito di cittadinanza! È una scelta che corrisponde a una visione moralistica e punitiva della povertà, che rimanda all’idea di una speciale colpevolezza del povero in quanto tale. Non è una questione di poco conto. Nel Paese che è la patria di Cesare Beccaria, la pena comminata deve essere proporzionata alla gravità dell’illecito. Sempre. Se ciò non accade, a essere travolto è un principio di civiltà giuridica che è tra i cardini dello stato di diritto. D’altra parte, anche questo non è un caso. Questa maggioranza può litigare sul tunnel della Tav, ma va perfettamente d’accordo su cappi e manette. Perché ha una visione della dialettica politica e della convivenza civile che è sempre giustizialista, violenta e manettara. Anche su questo la visione del Partito democratico è diversa, molto diversa. È una visione radicalmente alternativa!