Agenda per una svolta di Governo

Tommaso Nannicini
#governo

Nel mezzo di una pandemia, né una prolungata crisi al buio né elezioni anticipate sarebbero le scelte più sensate. Ma c’è una scelta che sarebbe ancora peggio: un governo che non governa, limitandosi a vivacchiare. L’Italia ha bisogno di un governo all’altezza della fase drammatica che stiamo vivendo, a partire dalla crisi occupazionale dietro l’angolo. È difficile pensare che il Conte bis — con un po’ di maquillage fatto dal riempimento delle caselle lasciate vuote da Italia Viva, documenti con impegni generici e l’appoggio di parlamentari senza fissa dimora — possa bastare. Dobbiamo cambiare passo. Ora non serve la caccia ai transfughi; serve la caccia alle idee. Non serve un presidente che trasforma la rana (un gruppo parlamentare) in principe (un partito politico); serve un presidente che governa. Lasciamoci alle spalle veti e personalismi, per tenere vivo il dialogo politico sulle scelte da fare.

Che l’attuale governo — al di là di due punti di forza come il ritrovato ancoraggio all’Europa e la difficile gestione di una pandemia che ha colto tutti di sorpresa — mostrasse ormai limiti di visione e di azione non era un segreto. Anche Zingarettichiedeva una svolta. Il problema è che il Pd non ha mai sostanziato con forza su quali proposte dovrebbe basarsi questa svolta. Tanto che il discorso di Conte in Parlamentodi tutto si è fatto carico tranne che della consapevolezza di dover voltare pagina. C’è stato un lungo elenco di cose fatte e qualche titolo generico sul futuro. Niente visione, niente proposte. E questo è stato un limite di Conte, ma anche di chi gli ha fatto credere, accodandosi all’hashtag #AvantiConConte, che il tema fosse quello di fare le barricate intorno al suo nome senza cambiare passo sui contenuti.

La nostra timidezza si nutre di vari alibi, non tutti giustificabili. C’è l’emergenza pandemica, si dice, non possiamo mettere a rischio la governabilità. Ok, ma se la governabilità diventa fine a sé stessa e non produce soluzioni per il Paese, a un certo punto andrà messa a rischio. Siamo in un governo di coalizione e non possiamo decidere tutto noi, si dice. Ok, ma iniziamo col definire le nostre priorità, per poi spiegare i necessari compromessi in modo trasparente. Renzi è inaffidabile, si dice, e i temi che pone sono solo un pretesto per far fuori Conte. Ok, ma l’unico modo per smascherare l’eventuale bluff è rilanciare sui contenuti. La politica non si fa con le ripicche o i risentimenti. Apriamo un dialogo serio e smascheriamo il bluff, se ne siamo capaci. Se dietro a tutti questi alibi, invece, si nascondesse la motivazione di fare un’alleanza strategica a quattro gambe tra M5s, Pd, Leu e centristi d’estrazione contiana, beh, questa scelta sarebbe la morte del Pd e meriterebbe almeno di essere discussa in un congresso.

Qui sotto faccio qualche esempio di proposte che il Pd dovrebbe mettere al centro delle sue richieste programmatiche per dare un senso alla svolta che invoca. Richieste da sostanziare con il dialogo sociale e il contributo dei nostri amministratori locali (ed è un bene che proprio oggi il Pd abbia convocato parti sociali, associazioni e terzo settore sul Recovery Plan). Per non predicare bene e razzolare male, parto dall’esempio di una proposta che vorrei si facesse, ma a cui posso rinunciare se serve a trovare una sintesi politica più avanzata. La politica è compromesso, ma sulle idee, non sulle alchimie o sulle simpatie. Secondo me, è un’assurdità non usare il Mes, perché la nostra sanità territoriale ha bisogno di investimenti pubblici e quella linea di credito non ha condizionalità, se non di spesa, e costa poco. Ma adesso le priorità sono altre, a partire da un Recovery Plan credibile e attuabile in tempi certi: se serve a trovare la quadra, lasciamo pure stare il Mes. Insomma, ognuno deponga le sue bandierine e concentriamoci tutti insieme su quello che serve.

Su lavoro e welfare, l’unica visione che si percepisce nell’attuale governo è quella di rinviare l’ora X degli effetti sociali e occupazionali della crisi, comprando tempo con proroghe dello stop ai licenziamenti e della cassa integrazione emergenziale. Si tengono buoni i sindacati col primo e le imprese con la seconda, al riparo del profluvio di miliardi che stiamo finanziando in deficit. Peccato che, nel frattempo, ci siamo già persi per strada mezzo milione di occupati: lavoratori precari, partite Iva, giovani in ingresso nel mercato del lavoro, disoccupati che vedono finire la Naspi; persone in carne ossa che nessuno chiama “licenziati” o sbatte sui giornali legandoli a crisi aziendali dai nomi sempre uguali da decenni, ma tutte persone che avrebbero avuto un lavoro e non ce l’hanno per colpa della crisi.

E peccato che, mentre compriamo tempo, non ci stiamo preparando alla fine delle misure emergenziali. L’ora X prima o poi arriverà. E arrivarci senza essersi preparati adeguatamente sarebbe un crimine. Lo tsunami che ha colpito la nostra economia richiederà cambiamenti enormi, che prima sarebbero avvenuti in decenni sull’onda del progresso tecnologico o della globalizzazione, e che ora avverranno in pochi anni. Ci saranno imprese che chiuderanno e altre che nasceranno; lavoratori che perderanno il posto e altri che lo ritroveranno. Non possiamo far finta che non sia così. Dobbiamo guardare negli occhi le persone e dirgli che ci sarà da cambiare e sarà faticoso, ma nessuno sarà lasciato solo nella fatica del cambiamento.

Per ora non si vede una strategia, fatta di risorse e riforme, per governare il cambiamento e le transizioni che avverranno nel mondo del lavoro. Sulla formazione, non stiamo facendo niente (per favore, non si dica che il fondo nuove competenze serva a questo e non per consentire qualche politica passiva mascherata a poche grandi imprese). Sulle politiche attive, non stiamo facendo niente (no, l’assegno di ricollocazione con fondi europei non basta e Anpal non guiderà il processo che serve, finché non se ne ridefiniranno i compiti e se ne cambierà il presidente). Sui giovani, non stiamo facendo niente (per favore, non si dica che una decontribuzione parziale e con seri problemi di utilizzo, e qualche spicciolo per la Naspi, bastino per rilanciare l’occupazione giovanile).

Tanto per cominciare, per fare quella chiarezza che non c’è stata nel passaggio dal Conte I al Conte bis, quota 100 va superata definitivamente, mettendo in campo una riforma composta da quattro ingredienti: 1) una “quota 92”, strutturale e ben finanziata, solo per i soggetti per cui andare prima in pensione è una necessità (disoccupati, lavoratori gravosi, persone con disabilità e loro familiari); 2) un ammorbidimento dei meccanismi di flessibilità in uscita già presenti nel sistema contributivo; 3) una “pensione contributiva di garanzia” per i più giovani; 4) una “pensione attiva” che consenta di passare al part-time quasi a parità di stipendio incassando contributi e Tfr in busta paga.

Sempre all’insegna della chiarezza, il reddito di cittadinanza va rivisto. Quando venne approvato, le critiche di merito all’impianto di quella riforma erano già chiare. E non parlo delle critiche ideologiche sul “divanismo” e sul fatto che non si debba dare un reddito ai poveri sennò non lavorano. Quelle critiche erano pretestuose in un paese dove la più grande lacuna del welfare era proprio l’assenza di un reddito minimo di ultima istanza per chi si trova fuori dal mondo del lavoro e in condizioni di fragilità sociale: una lacuna che l’UE denunciava da anni nelle sue raccomandazioni (che, guarda caso, vengono ascoltate solo quando ci chiedono di tagliare le pensioni, non di aiutare chi ha bisogno). Parlo di altre critiche: quelle giuste, che fin dall’inizio aggredivano nel merito un impianto sbagliato; un impianto che faceva confluire in un’unica misura “ibrida” il sostegno alla povertà e le politiche attive del lavoro.

Va quindi accolto con favore il ripensamento di Luigi Di Maio, che ha spiegato sul Foglio come sia “opportuno in questa fase ripensare alcuni meccanismi separando nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”. È un’inversione di rotta radicale rispetto alla retorica iniziale del reddito di cittadinanza. Le dichiarazioni, però, non bastano. Serve un disegno alternativo e scelte coerenti per farlo.

Il nostro sistema di ammortizzatori sociali va ripensato per superarne la frammentazione categoriale e le iniquità che ancora si porta dietro (tra dipendenti e autonomi, tra imprese piccole e grandi, fra settori e condizioni soggettive). Disegnando un unico strumento di garanzia del reddito per ognuna di queste platee: 1) lavoratrici in costanza di rapporto; 2) disoccupati; 3) autonomi, 4) persone in condizione di povertà.

Per i disoccupati, i veri dimenticati degli interventi emergenziali durante la pandemia, ci sono Naspi e Dis-coll da potenziare, facendole confluire in un unico “reddito di formazione”. Ma rovesciandone la logica attuale. Non più sussidi con condizionalità che nessuno controlla, ma un percorso fatto di bilancio e certificazione delle competenze, orientamento, formazione e sostegno alla mobilità. Un percorso personalizzato da proporre a chi cerca un lavoro, permettendogli di accedere a una garanzia del reddito più forte di quella esistente solo se lo accetta. In particolare, il reddito di formazione non prevede la forte riduzione mensile della Naspi, fornisce una copertura più lunga agli over 50 ed è più facile da ricevere per i giovani in cerca di prima occupazione (che non devono aspettare 4 anni di contribuzione prima di ricevere una garanzia del reddito che permetta loro di formarsi e mettersi in gioco, creando così una sorta di reddito d’inserimento affiancato da investimenti in formazione).

Certo, per fare questa rivoluzione, si devono cambiare i processi con cui vengono erogati e valutati i servizi. Serve un sistema che leghi orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. Un sistema basato su banche dati interoperabili e sul loro utilizzo con tecniche alla frontiera della ricerca. Tutte le politiche attive, passive e formative che ogni persona riceve lungo il ciclo di vita devono confluire in un “codice di cittadinanza attiva”: una bussola dei diritti che ti segua e si adatti al tuo percorso. E questo cambio di paradigma deve coinvolgere anche il lavoro autonomo, estendendo la sperimentazione dell’Iscro introdotta con l’ultima legge di bilancio.

Per i poveri, infine, se proprio non si vuole dare al reddito di cittadinanza il suo vero nome di “reddito minimo” (come viene chiamato in tutti i sistemi di welfare), si faccia almeno una manutenzione straordinaria del suo impianto. Togliendo il vincolo di dieci anni di residenza, che è profondamente discriminatorio; cambiando la scala d’equivalenza per aiutare le famiglie numerose e i minori in condizioni di povertà; riducendo l’incentivo ai single occupabili; e allentando i vincoli patrimoniali laddove non c’è possibilità di ottenere liquidità. Sempre sul fronte del welfare, poi, c’è un’altra lacuna storica da colmare: il sostegno alla non autosufficienza. In Parlamento giacciono riforme per introdurre un budget di cura, c’è solo da discuterle e approvarle.

Avere un welfare davvero universalistico è utile anche per la crescita, perché se si vuole favorire il rischio bisogna offrire protezione: un acrobata disegna acrobazie spericolate solo se sa che sotto c’è una rete di salvataggio, che se cade l’unica cosa che deve fare è rialzarsi e riprovare. E il diritto alla formazione permanente, di qualità e per tutti, è la protezione più forte che possiamo dare di fronte ai cambiamenti che ci attendono. Ma non si crea lavoro solo con welfare e formazione. Servono investimenti pubblici e privati, infrastrutture materiali e immateriali, imprese che disegnano mondi nuovi. Il Recovery Plan ci offre un’occasione unica per favorire la crescita. Ma non è un bancomat: dobbiamo smettere di viverlo come una legge di bilancio finanziata con fondi europei.

I soldi di Next Generation EU non vengono da Marte, vengono dal futuro: li stiamo prendendo a prestito dalle future generazioni di europei e italiani (e dovremo rimborsarli entro il 2058 anche con imposte comunitarie). Proprio per questo dobbiamo usarli al meglio, sapendo che i soldi non bastano: servono riforme. Il piano non può essere una lista di progetti suddivisi in missioni, ma deve essere inserito all’interno di un quadro di riforme e di scelte di bilancio pluriennali, altrimenti si farà fatica a individuare e trasmettere una direzione di marcia.

Gli investimenti pubblici finanziati da NGEU dovranno iniziare entro due anni e finire entro sei: tenendo conto che ci vogliono cinque anni per ottenere i permessi per un impianto eolico, abbiamo un problema. Il piano non può non contenere i dettagli di una riforma della pubblica amministrazione con strumenti precisi e obiettivi misurabili (nuove competenze, digitale, superamento di vincoli amministrativi e disincentivi al contenzioso).

Gli investimenti privati non ripartono solo a colpi di bonus, hanno bisogno di un ecosistema che favorisca la transizione digitale ed ecologica del nostro tessuto produttivo. La giustizia tributaria deve essere riformata per dare certezza (ci sono già proposte in Parlamento, basta discuterle e approvarle); servono testi unici del fisco che si possono compilare rapidamente (a questo servono le task force, non a ricordarci la lista delle riforme di cui parliamo da anni).

Il nostro fisco deve essere non solo più semplice, ma più giusto. Per ora si accenna soltanto a una riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi, ma non si parla di spese fiscali, del rapporto tra imposte indirette e dirette, tra tassazione del reddito e del patrimonio. Dobbiamo rendere più giusta sia la tassazione del patrimonio, riformando il catasto e le imposte di successione, sia quella sul reddito, eliminando le iniquità verticali e orizzontali che si annidano nella nostra Irpef. Ma non basta. Dovremmo avere il coraggio di dire che dobbiamo tassare di più la ricchezza per tassare meno il lavoro (dipendente, autonomo e imprenditoriale). Uno spostamento che ha di per sé elementi di progressività.

Insomma, il diavolo sta nei dettagli. E senza visione d’insieme i dettagli non hanno senso. La versione attuale del Recovery Plan è ancora molto lacunosa rispetto alle giuste condizioni che ci siamo dati come europei: obiettivi intermedi e finali chiari e quantificabili. Senza questi requisiti, i soldi rischiamo di non prenderli, ed è giusto che sia così, perché il rischio di spenderli male sarebbe troppo alto. Prendiamo il caso della transizione ecologica. Il piano o sarà verde o non sarà. Come ha scritto Marco Albani su Medium, la sostenibilità ambientale deve essere un obiettivo trasversale, non solo una singola missione, contenendo una quantificazione chiara della riduzione delle emissioni clima-alteranti e un’attenta analisi costi-benefici per ogni progetto. Altrimenti rischiamo di fare gli ambientalisti in una missione, ma di rimangiarci tutti i passi in avanti in altri progetti catturati da interessi particolari. Il piano destina almeno il 37% alla transizione ecologica, come ci chiede l’UE, ma soltanto il 25% del totale delle risorse aggiuntive. Va cambiato. E dobbiamo inserire l’obbligo di una valutazione puntuale degli effetti distributivi di ogni intervento. Nelle ultime leggi di bilancio, ci sono bonus che hanno finalità condivisibili ma effetti regressivi (ecobonus, Pir, mobilità elettrica). Dobbiamo uscire dalle Ztl e ricordarci che senza giustizia sociale l’ambientalismo è giardinaggio (copyright Chico Mendes).

Da ultimo ma non certo per ultimo, non c’è futuro senza interventi radicali su natalità, occupazione femminile e scuola. L’assegno unico per le famiglie con figli è una riforma importante, ma per essere fatta bene ha bisogno di altri 2 miliardi e deve recuperare il carattere universalistico che la ispirava, togliendo il riferimento all’Isee. Per favorire l’occupazione femminile, dobbiamo approvare subito la legge sulla parità salariale e discutere una riforma complessiva ispirata a nuove politiche di condivisione dei carichi lavorativi e di cura familiare. Quella di fare figli non è una scelta che le donne, da sole, devono “conciliare” col lavoro, ma una scelta che le coppie devono “condividere”. Servono congedi obbligatori paritari per madri e padri; part-time di coppia agevolato; aiuti alle imprese per gestire la flessibilità che questi cambiamenti impongono; servizi all’infanzia. Il piano dell’Alleanza per l’infanzia ed educAzioni contiene proposte forti e quantificate su infrastrutture educative e sociali, va preso in toto.

La scuola è stato uno dei dossier gestiti peggio dal Conte bis. La pandemia è stata una sfida terribile, ma ritardi ed errori hanno aggravato i costi imposti sulle giovani generazioni. Ora serve subito un piano straordinario, da realizzare da qui a settembre, per il contrasto alla dispersione scolastica, la misurazione e il recupero delle competenze perse durante il Covid: un piano da definire subito con parti sociali ed esperti, ma senza arenarsi dietro a scuse su orari, luoghi o calendari estivi. Viviamo sfide straordinarie e straordinarie devono essere le risposte. La ferita va sanata subito.

Nello stesso tempo, va progettata la scuola del futuro. Mentre usiamo i fondi NGEU per l’edilizia scolastica e la digitalizzazione, dobbiamo metterci una nuova idea di scuola, che ripensi le carriere, gli spazi e i tempi per aprirsi a territori e terzo settore, a nuove attività, farsi comunità educante, combattere la povertà educativa e favorire la mobilità sociale. Le tecnologie digitali non sono solo hardware, impongono un ripensamento dei modelli educativi e degli spazi per garantire il benessere psico-fisico. Linguaggi di programmazione ed educazione civica digitale devono entrare nei programmi al di là delle sperimentazioni con fondi PON, perché tutti ricevano le stesse opportunità su tutto il territorio nazionale.

Se mettessimo al centro della discussione politica — nel Paese e con il Paese — queste priorità, riannodare i fili della crisi potrebbe rivelarsi meno complicato del previsto. Ora servono ago e filo, non spallate o minacce di elezioni anticipate. Ma ago e filo richiedono politici capaci e pa