Ai riformisti manca un’ideologia

Tommaso Nannicini
#riforme

Provate a dire a un bambino di smettere di fare una cosa sbagliata perché “non si deve”: continuerà a farla. Provate a dirgli di finirla perché ormai “sei grande”: ci sta che, toccato nell’orgoglio, la smetta. Lo stesso avviene con i soggetti collettivi. Preferiscono essere motivati dal proprio orgoglio piuttosto che telecomandati dagli ordini dei dittatori o dalle ricette dei politici. Marx l’aveva capito. Non si era limitato a criticare l’esistente. E neanche a indicare una terra promessa. Aveva rivelato il soggetto “eletto” che ci avrebbe condotto laggiù. Dopo l’età dell’aristocrazia e quella della borghesia, stava per arrivare il regno (tutto terrestre) del proletariato e con esso la fine della storia. Il proletariato era la classe sociale “unta dalla Storia”. Questa narrazione creava identità, orgoglio, senso di missione.

Le grandi leadership legano l’orgoglio di un soggetto collettivo a un obiettivo politico di trasformazione sociale. Parlano di nuove frontiere non di triloghi (questa la capiranno in pochi, per fortuna degli altri). Purtroppo, anche la narrazione conservatrice e il populismo di destra possono pescare in questo brodo di emozioni. Se il compito è quello di proteggere i privilegi di una nazione “superiore”, può anche lì scattare l’orgoglio, sebbene distorto, violento e mal inteso. Per sconfiggerlo serve una narrazione potente, positiva, che ci faccia toccare con mano un futuro migliore e ci affidi il compito di arrivare proprio lì: in una società più giusta. Una società che porta avanti chi è nato indietro. Una società che si prende cura del pianeta dove vive e delle relazioni tra le persone che la compongono.

In fondo, capita così anche con le ideologie prêt-à-porter dei nostri tempi fluidi. Il tecno-ottimismo affida una missione agli ingegneri e agli startupper della Silicon Valley. L’appello dell’invasore Putin alla “grande madre Russia” affida una missione (criminale) a un popolo sfibrato da ristagno e povertà. La politica democratica nel mondo occidentale, dal canto suo, ha smesso di suscitare orgoglio, senso di appartenenza e senso di missione. Almeno dal 1989. Da allora, abbiamo finito col buttare via troppi bambini con l’acqua sporca. Per superare le ideologie, abbiamo smarrito gli ideali. Per rimuovere le distorsioni dello stato assistenziale, abbiamo disperso la lotta alle ingiustizie. Per ridurre la partitocrazia, abbiamo rovinato i partiti. Nel limitare gli stati nazionali, abbiamo perso la capacità della politica di dare risposte, perché non abbiamo saputo costruire nuove sovranità transnazionali.

Il primo anello di questa catena, anche se spesso è il più ignorato, è forse il più importante. Senza un’ideologia, una missione comune, i partiti diventano gruppi di potere in mano a pochi incompetenti (in senso etimologico: perché “competenza”, al contrario, vuol dire mirare a un obiettivo condiviso). Senza una visione comune, le proposte politiche sono solo un elenco della spesa incapace di generare cambiamento sociale. Senza un’identità comune, è impossibile dare sostanza a forme di sovranità transnazionale, che restano così roba da convegni, da burocrati mascherati da politici. Ai riformisti non mancano proposte. Non manca un partito. Non manca una leader. Manca un’ideologia.