Decreto riders e crisi aziendali: cosa c’è e cosa resta da fare

Tommaso Nannicini
#lavoro

Ieri è stato convertito in legge il decreto su riders e crisi aziendali. Un decreto emanato dal vecchio governo e poi modificato dalla nuova maggioranza. Ci sono alcune risposte utili a problemi concreti, ma non è niente di che. Il grosso resta da fare.

Ma che cosa cambia nel concreto per le persone coinvolte, a partire dai fattorini che consegnano cibo nelle nostre città in bici o moto? Nel rispondere, mi limito a raccontare tre norme a cui ho lavorato direttamente. Con una duplice prospettiva: le (piccole) cose che cambiano subito e le molte che si dovrebbero fare sulla stessa strada.

1. Le norme sui rider

Sui rider e più in generale sui lavoratori delle piattaforme digitali abbiamo finalmente una norma che fa chiarezza. Parliamo di circa 700 mila lavoratori, 150 mila dei quali hanno questa come fonte principale di reddito. I rider — non più di 20 mila — sono solo una piccola componente di quest’area del mercato del lavoro in continua espansione.

La nuova norma fa una cosa molto semplice (riprendendo un mio disegno di legge dell’anno scorso): estende l’articolo 2 del decreto legislativo n. 81 del 2015 (Jobs act) per chiarire che tutti i lavoratori organizzati mediante piattaforme digitali si vedono riconosciute le tutele del lavoro subordinato. Anche laddove sia un algoritmo a coordinare, controllare e sanzionare una prestazione di lavoro, si applica la disciplina del lavoro subordinato. Punto. Nel concreto, questi lavoratori potranno andare da un giudice qualora non si vedano riconosciute tutele standard contro infortuni e malattia, o una giusta retribuzione. Ma c’è dell’altro. La contrattazione collettiva potrà evitare il passaggio dal giudice, decidendo le specifiche tutele da dare a questi lavoratori in termini di retribuzione, ferie, malattia e assicurazione contro gli infortuni. In quel caso, infatti, varranno le tutele individuate dai rappresentanti delle aziende e dei lavoratori, non la generica disciplina del lavoro subordinato. È un investimento sulla responsabilità della contrattazione collettiva. Ma è chiaro che adesso il potere contrattuale di chi rappresenterà i lavoratori a quel tavolo sarà più forte. Perché in assenza di un accordo, ai lavoratori organizzati da piattaforme digitali — sia che abbiano partita Iva sia che siano collaboratori autonomi — si applicheranno le norme di tutti i lavoratori dipendenti.

Per carità, questa norma non risolve il problema di come ridisegnare i diritti di chi lavora nell’era dell’algoritmo. Nel medio periodo, ci sarà da aggiornare la cassetta degli attrezzi del diritto del lavoro, magari individuando uno zoccolo di tutele da garantire a tutti, dipendenti e autonomi, in un mondo del lavoro che cambia alla velocità della luce: giusta retribuzione, protezione da infortuni e malattia, tutele previdenziali e assistenziali, diritto a privacy e disconnessione, diritto di associazione sindacale. Ecco il cantiere da aprire subito per rafforzare i diritti di chi lavora senza fermare il mondo.

2. Il welfare per gli autonomi

La seconda norma riguarda l’indennità di disoccupazione per i collaboratori (DIS-COLL). Anche qui l’intervento è piccolo: si allarga al margine la generosità del sussidio, riducendone i requisiti contributivi di accesso. Ma la direzione, di nuovo, è giusta. Quella di un rafforzamento del welfare anche per i collaboratori e i lavoratori autonomi.

Il Jobs act del lavoro autonomo del 2017 (che ho già raccontato qui su Medium), ha esteso le tutele anche a questo mondo, ma prevedeva deleghe che non sono mai state esercitate. C’è un cantiere da riaprire, quello del welfare per i lavoratori autonomi (tutti, anche le partite Iva, non solo i collaboratori). C’è la gestione separata Inps da allargare, per rendere più forti maternità, tutela della malattia e garanzia del reddito per le partite Iva non ordiniste. E c’è un percorso da fare con le Casse professionali, nella loro autonomia, per rafforzare il welfare allargato dei professionisti. Dobbiamo disegnare anche nuove garanzie del reddito nei casi significativi di cali di attività.

C’è però da ricordare che il primo ammortizzatore sociale è l’equo compenso, la garanzia di una giusta retribuzione, principio che abbiamo introdotto nella scorsa legislatura per il lavoro autonomo: adesso dobbiamo fare i decreti attuativi di quella norma. E soprattutto dobbiamo individuare regole certe che impediscano alle pubbliche amministrazioni di sottopagare i professionisti, vecchi e nuovi. Non può esserci equo compenso se il datore di lavoro pubblico è il primo a sfruttare la debolezza di lavoratori giovani nelle nuove professioni. Uno scandalo che deve finire.

3. I professionisti di Anpal Servizi

La terza norma riguarda Anpal Servizi, la società pubblica che opera nelle politiche del lavoro. Si dà finalmente certezza sull’avvio di un percorso di stabilizzazione delle professionalità e delle competenze che lavorano in quella società con contratti a tempo o collaborazioni. Non si tratta di stabilizzare precari, ma di valorizzare professionisti che lavorano da anni nel settore dopo aver passato varie procedure selettive. Non è pensabile che chi opera per trovare lavoro di qualità ai disoccupati viva una condizione di precarietà. La norma sancisce che, ex decreto legislativo n. 75 del 2017 (Madia), tutti i lavoratori a tempo determinato di Anpal Servizi siano assunti a tempo indeterminato, e che per i collaboratori vi siano procedure riservate verso la stabilizzazione.

Questo, di nuovo, è solo un primo piccolo passo verso un investimento sulle politiche attive del lavoro e della formazione. Un investimento che non potrà prescindere da un ridisegno di queste politiche, anche rafforzando il ruolo dello Stato nel dare tutele che non possono variare da un confine regionale all’altro. Nessuno può essere lasciato solo in un mercato del lavoro sempre più dinamico, sia che si trovi a Bolzano sia a Reggio Calabria.