Un po’ di storia. Il primo leader di un grande partito di sinistra che propose di cambiare l’articolo 18 fu Massimo D’Alema, poi fermato dalla mobilitazione della Cgil di Cofferati. Cofferati che comunque si oppose nel 2003 al referendum di Rifondazione comunista per estendere l’articolo 18 sotto i 15 dipendenti, ipotesi oggi riproposta da Landini, di nuovo per via referendaria. Poi l’articolo 18 fu cambiato nel 2012 col governo Monti, il cui azionista di maggioranza era il Pd di Pierluigi Bersani. Sul piano giuridico e sostanziale, quello resta l’intervento che ha rimpicciolito di più il campo d’applicazione dell’articolo 18. Insomma: ammesso che ci sia stato un cedimento della sinistra al liberismo, e volendo paragonarlo al comunismo sovietico, D’Alema e Bersani hanno impersonato Breznev, Renzi al massimo Gorbaciov.
Detto questo, i referendum della Cgil non abrogano il Jobs act: questa è una fake news di chi preferisce la propaganda alla sostanza. Tre su quattro col Jobs act non c’entrano un fico secco. Uno su quattro abroga in effetti uno degli otto decreti legislativi del Jobs act (il 12,5%), ma è un’illusione ottica, perché quel decreto è già stato stravolto dalla Corte costituzionale, che ha reintrodotto la discrezionalità del giudice nello stabilire l’indennizzo in caso di licenziamento. Quindi, quel pezzo di Jobs act (il contratto a tutele crescenti) non esiste più da tempo, perché il risarcimento non cresce più con l’anzianità in azienda con una formula fissa. E questa era l’unica cosa che si voleva fare, non per ridurre i costi di licenziamento ma per renderli prevedibili. Si abroga una piccola parte del Jobs act che non esiste più (dopo che il Pd è stato al governo col ministro del lavoro e avrebbe avuto tutto il tempo per ritoccare quel decreto, che in effetti ha bisogno di essere sistemato dopo la sentenza della Corte), tornando così non all’articolo 18, ma alla disciplina Monti-Fornero-Bersani. Risultato: l’indennità massima che un giudice potrà stabilire in caso di licenziamento scenderà da 36 a 24 mesi, il tutto per avere la possibilità di reintegro in caso di “manifesta insussistenza” (una fattispecie del tutto marginale) e portare a casa lo scalpo del Jobs act. Un affarone.
Detto anche questo, il contratto a tutele crescenti era solo uno dei tanti ingredienti del Jobs act. La riforma degli ammortizzatori sociali (con il rafforzamento della Naspi; l’estensione della cassa alle piccole imprese; l’introduzione del Reddito di inclusione e delle prime tutele per il lavoro autonomo in due leggi collegate), le politiche attive e della formazione, la stretta sul precariato (con la norma sull’etero-organizzazione contro le false partite Iva, che i rider di Torino hanno usato per vedersi riconosciute le tutele del lavoro subordinato; l’abolizione dei cocopro e di altre piccole forme atipiche; la norma contro le dimissioni in bianco): tutti questi interventi ne rappresentano altri ingredienti fondamentali. Per carità, su alcuni di questi interventi si fece troppo poco (per mancanza di risorse o volontà politica), ma la direzione era giusta. Il modello era la socialdemocrazia scandinava, non Blair. Non a caso tutte le riforme degli ammortizzatori che sono arrivate dopo, dal reddito di cittadinanza ai ritocchi del governo Draghi, sono andate nella stessa direzione, mettendoci più risorse, anche se a volte maldestramente.
Sui temi del lavoro (salario minimo, politiche industriali, congedi paritari, formazione permanente) non si è mai vista così tanta convergenza e unità di vedute tra chi si occupa di queste cose all’interno del centrosinistra. Distogliere l’attenzione da questi temi per dividersi su una bandierina del passato è funzionale solo a dirigenti politici e sindacali che non hanno altri strumenti per nascondere un vuoto di idee e rappresentanza. Chiunque cadrà in questa trappola, mettendosi magliette e partecipando al teatrino di uno scontro fittiziamente ideologico, si renderà complice di un crimine non contro il riformismo, ma contro la buona politica.