Le riforme sono nude

DemocraziaLavoro

Un’occasione storica, un’opportunità unica. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) presentato dall’Italia per utilizzare le risorse del piano europeo Next Generation EU (NGEU) – risorse in parte a debito e in parte sotto forma di trasferimenti a fondo perduto – è di solito salu- tato con una di queste formule. Non c’è dubbio che sia così, ma visto che la storia economica del nostro Paese, per dirla con Michele Salvati, è costellata di “occasioni mancate”, forse dovremmo mettere un po’ da parte l’enfasi per concen- trarci sui nodi che in passato ci hanno impedito di cogliere altre opportunità. L’Europa non è un bancomat, dove pren- dere un po’ di soldi e scappare per rifugiarsi al caldo dei con- fini nazionali. NGEU è l’occasione per cambiare quello che da noi non funziona, non per finanziare una serie di progetti a piè di lista. In fondo, se per agganciare un sentiero di crescita sostenuta, sostenibile e inclusiva, bastasse spendere un po’ di soldi pubblici, l’Italia non avrebbe i problemi che ha da decenni su questi fronti, vista la mole di debito pubblico che abbiamo accumulato.

 

Cominciamo col dire che NGEU è un’occasione unica per l’Unione Europea, che in questa crisi, a differenza delle pre- cedenti, ha dimostrato di esserci. Per dirla con Sergio Fab- brini, le “crisi multiple” che si sono susseguite dal 2008 in poi (finanziaria, economica e migratoria) hanno mostrato tutti i limiti dell’Unione Europea, alimentando una crisi di fiducia nei suoi confronti. Negli anni dal 2009 al 2012, mentre gli Stati Uniti sostenevano una politica fiscale fortemente espan- siva, nella testa dei leader europei c’era solo il tema del con- solidamento fiscale, cioè di come rientrare dai deficit creati da politiche attuate in maniera frettolosa e scarsamente coor- dinata per rispondere alla crisi finanziaria innescata dal falli- mento di Lehman. Non solo non si poteva parlare di Euro- bond, ma la parola “crescita” era un tabù nei documenti uffi- ciali, come se quella mera invocazione fosse un cedimento al lassismo dei paesi indebitati del Sud Europa. Certo, la politica monetaria fece la sua parte, ma si dovette attendere l’estate del 2012 con il “whatever it takes” di Mario Draghi e della Bce, l’unica istituzione federale e sganciata dai limiti della logica intergovernativa. Quanto tempo perso nel frattempo.

Ma NGEU non è solo la risposta forte a una crisi senza precedenti. Può essere il primo passo verso un’unione fiscale che completi quella monetaria e del mercato unico. Tasse e debito, il cuore della sovranità economica, possono spostarsi in parte consistente a livello europeo

 

Durante la crisi pandemica, per fortuna, le cose sono andate diversamente. La Commissione ha subito sospeso il Patto di stabilità e la disciplina sugli aiuti di Stato, per permettere agli Stati membri di attuare politiche espansive senza ritardi. La Bce ha adottato una politica altrettanto espansiva senza ten- tennamenti. Poi, il 27 maggio 2020, la Commissione ha pro- posto NGEU: 750 miliardi, di cui oltre la metà costituita da sovvenzioni finanziate con debito comune, per rilanciare cre- scita, investimenti e riforme. Il 21 luglio i capi di Stato e di governo dell’UE hanno raggiunto un accordo politico sul pro- gramma, che poi è stato raccolto dalle decisioni del Consiglio e del Parlamento europeo nei mesi di novembre e dicembre. Ma NGEU non è solo la risposta forte a una crisi senza pre- cedenti. Può essere il primo passo verso un’unione fiscale che completi quella monetaria e del mercato unico. Tasse e debito, il cuore della sovranità economica, possono spostarsi in parte consistente a livello europeo.

 

Sono gli ingranaggi della storia che si mettono in moto nella giusta direzione. Come avvenne negli Stati Uniti con il New Deal degli anni ’30: che non fu solo la risposta alla crisi del 1929, ma un cambiamento istituzionale permanente, nel rap- porto tra governo federale e singoli Stati membri. È il tassello che manca alla costruzione europea per non essere solo una moneta e un mercato in comune, ma un’entità politica che affronta le sfide globali vivendosi come una comunità di destino. Per questo la Conferenza sul Futuro dell’Europa, che sta per partire, sarà un banco di prova decisivo sulla consapevolezza delle leadership europee che siamo di fronte a un bivio di tale portata. È lì che si dovrebbe discutere di come trasformare un piano straordinario di risposta alla crisi economica e sociale innescata dalla pandemia, NGEU, in un’unione fiscale che ci permetta non solo di affrontare le prossime crisi, ma di difendere e rilanciare il modello sociale europeo. Un’unione fiscale guidata da un’istituzione compiutamente federale, con testa e cuore europei. E con la politica al centro.

Gli annunci di riforma sono credibili solo se mettono a fuoco le criticità che in passato ci hanno impedito di fare quello che diciamo di voler fare adesso

Se l’UE saprà scegliere la strada giusta di fronte a questo bivio della storia, non dipenderà solo dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, ma anche da come gli Stati europei sapranno spendere le risorse di NGEU. Da questo punto di vista, l’Italia gioca un ruolo cruciale, come maggiore benefi- ciario del programma e come destinatario di tanti stereotipi, frutto anche del debito cattivo che abbiamo fatto in passato (debito ispirato dalla ricerca del consenso nel breve periodo, piuttosto che da motivazioni di crescita e giustizia sociale). Se riusciremo a sfruttare questa opportunità, sfuggiremo al piano inclinato del declino economico e sociale nel quale ci siamo infilati per le nostre scelte sbagliate. E nello stesso tempo dimostreremo che una politica economica europea serve a tutti, superando la crisi di fiducia tra paesi che finora ha impe- dito all’Europa di diventare un’entità politica.

Per farlo non basta spendere i soldi, servono visione e riforme per permettere a quei soldi di indirizzare e governare la neces- sità del cambiamento. Il PNRR presentato dal governo Draghi rappresenta un indubbio salto di qualità sul fronte delle riforme, rispetto alle stesure precedenti di quel documento. Ma sempre di un documento si tratta. Come evitare che obiet- tivi che ripetiamo da anni non restino sulla carta? Molte riforme elencate nel PNRR hanno il sapore della Salerno- Reggio Calabria: tutti l’annunciano, nessuno la vede. Dob- biamo aggredire tre elementi politici se vogliamo passare dalle parole ai fatti: (1) credibilità delle riforme, soprattutto di quelle che devono favorire la giustizia sociale; (2) politiche industriali che aiutino tutto il nostro tessuto produttivo a cam- biare in modo strutturale e permanente; (3) valutazione credi- bile non solo di quanto spendiamo, ma di come lo spendiamo rispetto agli obiettivi prioritari e trasversali che ci siamo dati. Parto dal primo elemento. Gli annunci di riforma sono credi- bili solo se mettono a fuoco le criticità che in passato ci hanno impedito di fare quello che diciamo di voler fare adesso. Pur- troppo sui blocchi politici, istituzionali ed economici che hanno frenato finora qualsiasi tentativo di riforma nel PNRR c’è poco o niente. L’analisi varia da settore a settore, ma di solito sono mancate all’appello: risorse finanziarie; capitale politico, visione d’insieme.

 

Risorse finanziarie. Ammortizzatori sociali, fisco, politiche del lavoro e della formazione, non autosufficienza, pensioni, giustizia, sicurezza del lavoro, pubblica amministrazione: non c’è una singola area d’intervento dove non servano risorse finanziarie permanenti (non una tantum come quelle di NGEU) per dare risposte alla vita delle persone. Le riforme a costo zero esistono solo negli editoriali di noi economisti. Da questo punto di vista, il “fondone” con il programma d’inter- venti complementari al PNRR (istituito dal decreto legge 59/2021) rappresenta una grande occasione sprecata. Si è deciso di impegnare 30,6 miliardi di risorse proprie, iscritte per sempre nel bilancio dello Stato, per finanziare altri inter- venti nazionali in linea con le missioni del PNRR: un premio di consolazione per progetti di ministeri, lobbies e categorie che non avrebbero passato il vaglio dell’Unione Europea. Non sarebbe stato più saggio, e più credibile rispetto agli impegni ambiziosi del PNRR, creare un “fondo riforme”? Con risorse certe e permanenti per farle davvero le cose che stanno scritte nel piano. “Put your money where your mouth is”, dicono gli anglosassoni: metti i tuoi soldi laddove ci sono le tue parole. Per la serie: quello che dici risulta credibile solo se le scelte che fai, anche di natura finanziaria, sono coerenti. Al momento, le riforme del PNRR sono nude, come il Re, e qualcuno deve trovare il coraggio di dirlo se non vogliamo andare a sbattere, aggiungendo un altro capitolo alla storia delle occasioni mancate del nostro Paese.

Senza un’idea nuova di politiche del lavoro e del welfare, i soldi del PNRR non basteranno a innescare la transizione digitale ed ecologica della nostra economia

Capitale politico. Se pensi di non scontentare nessuno, finisce che le riforme non le fai. Da questo punto di vista, non si vede ancora una strategia chiara per rimuovere le strozzature poli- tiche. Quale occasione migliore di un governo di unità nazio- nale e di un vero spirito repubblicano per aggredire quelle strozzature e ripartirsi i costi politici di alcuni interventi, a patto di spiegarli e inserirli dentro a un’idea di progresso. Ma per farlo serve una leadership politica, che governa le spinte centrifughe dei partiti di fronte alle scadenze elettorali e costruisce una sintesi politica più avanzata, non spartitoria. Nel PNRR, ci sono 48 interventi di riforma, con un’analisi molto approssimativa dei provvedimenti legislativi già esi- stenti su quei temi e dei blocchi politici che li hanno frenati. Ci sono tre priorità (giustizia, concorrenza e pubblica amministrazione) ma poco sul resto, a partire da fisco, welfare e politiche del lavoro: riforme difficili da governare sul piano politico, ma senza le quali qualsiasi transizione della nostra economia, anche la più utile, rischia di impantanarsi di fronte all’opposizione sociale al cambiamento. Ci siamo già persi per strada un milione di occupati mentre ci preoccupavamo solo del blocco dei licenziamenti e della cassa integrazione straordinaria. Senza un’idea nuova di politiche del lavoro e del welfare, i soldi del PNRR non basteranno a innescare la transizione digitale ed ecologica della nostra economia. Per- ché i costi del cambiamento e le resistenze a fare quelle transizioni saranno troppo forti.

 

Visione d’insieme. Veniamo così a un altro punto e al secondo elemento di criticità. Se non sai definire la complessità della società di oggi e le criticità aggrovigliatesi in tanti decenni di riforme fatte o mancate, d’interventi marginali o categoriali, difficilmente riuscirai a fare meglio. Nel PNRR manca un’ana- lisi puntuale sull’economia politica delle transizioni, cioè sulle ricadute degli investimenti su tutte le nostre filiere produttive. Prendiamo giustamente impegni sulle transizioni tecnologica ed ecologica, e sui nuovi equilibri geopolitici che creeranno, ma non ci prepariamo con serie politiche industriali e della formazione per permettere a tutto il nostro tessuto produttivo di affrontarle. Un po’ come quando abbiamo siglato gli accordi commerciali con la Cina, salvo scordarci di accompagnare la nostra economia verso i cambiamenti che avrebbero richiesto. No, qualche impresa partecipata legata alla politica non basterà. E non basterà neanche l’ecobonus al 110%, che può sostenere un po’ l’edilizia nel breve periodo (magari anche a costo di ridurre gli ordini in futuro), ma non preparare le nostre filiere produttive al balzo di competitività che verrà loro richie- sto. Dovremmo preoccuparci meno del rimbalzo del Pil nel prossimo anno, e molto di più della crescita potenziale nei pros- simi decenni. Altrimenti, di nuovo, aggiungeremo un altro capitolo alla storia delle occasioni mancate del nostro Paese. L’ultimo elemento riguarda la valutazione: non di spesa, ma sugli effetti degli interventi e delle riforme. Il PNRR fa giusta- mente propri tre obiettivi trasversali: equità tra generazioni, parità di genere e coesione territoriale. Giovani, donne e aree interne. Bene. Già prima della pandemia le disuguaglianze ita- liane si misuravano sulla frequenza 3G: generazionali, di genere e geografiche. Bene anche le condizionalità richieste dal Partito democratico su occupazione femminile e giovanile. Ma occorre fare di più per darci obiettivi misurabili, impostare una valutazione credibile sugli effetti di ogni intervento. E mettere in campo riforme, dalla formazione alle politiche di condivisione, che liberino il vero volano sul quale possiamo tornare a crescere: le opportunità di giovani e donne.