July 28, 2023
Riforma spagnola, il grande equivoco
Il Sole 24 Ore
Tommaso Nannicini
In Italia si fa un gran parlare della riforma spagnola del mercato del lavoro attuata dal governo Sanchez (Real Decreto-ley 32/2021). Il problema è che, come avviene spesso da noi, se ne parla con un mix di ideologismo e spensierata superficialità. Per alcuni, quella legge è il simbolo di una riforma agli antipodi del nostro Jobs act e in grado di sconfiggere la precarietà.
Prima di capire se è davvero così, vediamo gli ingredienti della riforma. Sul lavoro temporaneo, la Spagna ha fatto una stretta in due mosse: 1) abolizione di una tipologia contrattuale molto usata e alquanto precaria (obra o servicio); 2) aumento del costo dei contratti a tempo determinato rispetto a quelli stabili. Sul lavoro permanente, invece, ha fatto tre mosse: 1) mantenimento delle riforme del 2010 e del 2012, con cui i governi Zapatero e Rajoy avevano reso più flessibili i contratti stabili; 2) allargamento delle possibilità d’utilizzo di un contratto che formalmente è classificato come tempo indeterminato ma è una sorta di lavoro intermittente (fijo discontinuo); 3) introduzione di un nuovo contratto anch’esso formalmente a tempo indeterminato ma con costi di licenziamento molto bassi (fijo de la construcción). A questi elementi di ingegneria contrattuale se ne aggiunge uno politico: il fatto che la riforma è stata “concertata” con sindacati e associazioni datoriali. In verità, il piano iniziale della ministra Yolanda Diaz puntava solo a far salire i costi di separazione del lavoro permanente, superando le riforme bipartisan del 2010-12. Ma per la pressione congiunta del resto del governo e delle parti sociali, la riforma ha preso un’altra piega.
Torniamo, allora, alle affermazioni iniziali. Questa filosofia d’intervento è radicalmente diversa da quella del Jobs act? Quali sono stati gli effetti della riforma? Ha davvero sconfitto il precariato? La prima risposta è semplice: la filosofia è la stessa del Jobs act, per cui si rende più flessibile il tempo indeterminato mentre si restringe il lavoro temporaneo, abolendo alcuni contratti atipici come i co.co.pro. e aumentando i costi contributivi del tempo determinato. Si può discutere sull’efficacia degli strumenti (generali per i neoassunti nel caso italiano o limitati a certe fattispecie nel caso spagnolo) ma la filosofia è la stessa. Ed è diversa dalla cosiddetta “flessibilità al margine” che ha ispirato gran parte degli interventi degli ultimi decenni nei paesi Ocse, inclusa l’Italia con le riforme Treu e Biagi. Giusto per chiamare le cose col loro nome.
Arriviamo così alla seconda domanda: in Spagna questo approccio ha funzionato? Sì e no. Se si guarda alle statistiche aggregate, sì: i contratti a tempo indeterminato sono passati dal 62% al 71% del totale; i contratti a tempo determinato sono scesi dal 27% al 13%. Numeri enormi. Ma se si guarda a cosa c’è dietro, la realtà è più complessa: il lavoro intermittente (che è formalmente a tempo indeterminato ma di fatto precario) è quasi triplicato, passando dal 2,4% al 6,5%; dietro all’aumento dell’indeterminato c’è anche il contratto fijo de la construcción, che di nuovo da noi verrebbe visto come precario; e – cosa ancora più importante – il turnover nel lavoro permanente è aumentato, perché a fronte dei nuovi stock i flussi sono rimasti identici. Questo ci conferma che l’ingegneria contrattuale non fa miracoli e il mercato del lavoro spagnolo resta fragile e bisognoso di altri interventi. Formazione permanente, lotta al sommerso, welfare che copra sia i dipendenti sia gli autonomi, politiche di condivisione a favore del lavoro femminile, politiche industriali a sostegno della produttività: le misure che mancano non sono così diverse tra Spagna e Italia.
Insomma: prima di “fare come in Spagna”, come ripetono alcuni a mo’ di cantilena, sarebbe utile capire che cosa hanno fatto lì. Cominciando a copiarne il metodo, quello di una riforma discussa con le parti sociali, onde evitare sbandamenti e improvvisazioni.