Premio Marco Biagi 2016

Tommaso Nannicini
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Conclusione di Tommaso Nannicini, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri

 

Per me è un piacere e un onore partecipare a un iniziativa in ricordo di una figura di questa statura intellettuale e passione civile, un intellettuale che sapeva unire al rigore dello studio un forte impegno istituzionale per migliorare le nostre scelte politiche. Un intellettuale che non ha lasciato solo gli scritti, ho avuto modo di accorgermene giorni fa in un iniziativa in ricordo del professor Biagi al Senato, e non direi nemmeno una scuola, ma molti allievi sparsi in centri diversi e studi diversi che ancora ne seguono le orme, non semplicemente per onorarne la figura, ma perché c’è ancora qualcosa di vivo nel metodo di studio e nei suoi scritti.

A questa cerimonia si ricordava proprio come lo studioso sapesse tenere insieme metodo e visione, un’impronta sul metodo comparativista, “comparando si impara” leggiamo in uno dei suoi scritti, ma non per questa esterofilia che abbiamo a volte noi italiani per cui dobbiamo a tutti costi copiare dall’estero per migliorare, ma semplicemente perché soltanto comparando cosa funziona e cosa invece no in Paesi diversi, oppure cosa funziona e cosa no in certi contesti, si possono utilizzare pratiche migliori e capire come riformare le nostre istituzioni a partire da quelle del mercato del lavoro.

Accanto a questo metodo comparativista c’è una forte visione sul ruolo della politica, delle politiche pubbliche e di una regolazione che fosse soft, leggera, lasciando spazio all’autonomia delle parti sociali, a quella individuale, ma anche a quella degli interessi organizzati, una regolazione snella che non pretendesse di calare dall’alto la propria razionalità, la propria visione forte imbrigliando la realtà sociale e i processi sociali del mercato del lavoro, ma che creasse una cornice leggera. Penso che questo metodo e questa visione, che possiamo anche definire realismo, sia un insegnamento importante per chi fa politiche pubbliche.

Mi permetto però di aggiungere, ed è l’unica parentesi politica che mi concedo, anche perché in questo Paese si tende a partire sempre dall’anno zero, a fare un po’ finta che certi dibattiti e scontri politici non ci siano stati mentre l’autocritica è un esercizio sempre complicato, soprattutto in politica dove è un bene abbastanza raro. Rileggendo gli scritti del professor Biagi, anche quelli più pubblici, gli interventi su media e giornali, quindi meno specialistici, c’era anche, oltre gli aspetti già richiamati del metodo e della visione dello studioso, una visione politica perché è importante per uno studioso a servizio delle istituzioni avere anche una visione politica, anche non facendo il politico e anche se non si cercano voti intorno a quella visione politica.

Se ti confronti con chi prende decisioni e deve tradurre la tua decisione in scelte pubbliche non puoi non avere una visione politica, del conflitto sociale e di come quelle scelte si possano tradurre in scelte collettive e decisioni pubbliche. Rileggendo i suoi scritti, alcuni anche negli ultimi mesi di quell’inizio di 2002, vedo due direttrici: una forte impronta europeista, ma non quell’europeismo di facciata per cui dobbiamo farlo perché ce lo chiede l’Europa o va tutto bene ciò che proviene dall’Europa, un europeismo di chi aveva una fiducia in questo approccio della comparazione dove, grazie a una cornice snella, l’Europa potesse essere non il luogo dove una tecnocrazia detta le decisioni, ma quello dove si impara confrontando le pratiche migliori, dove ci si contamina, dove si impara quali sono le soluzioni più efficaci.

La seconda spinta era un forte afflato a una responsabilità bipartisan degli obiettivi di riforma e di cambiamento del mercato del lavoro. Vi confesso che ho riletto con un po’ di contorcimento personale alcuni dei quelli articoli. All’epoca ero un dottorando e mi ricordo quell’estremismo verbale, quello scontro ideologico: e rileggere questi messaggi nella bottiglia in cui si denunciavano gli insulti contro gli estensori del Libro bianco, si denunciava la liturgia del conflitto, si denunciava i riti dello scontro ideologico, ma si poneva anche una via di uscita e si invitavano le parti sociali a fare un atto di responsabilità come in Spagna rispetto alla necessità di assumersi la responsabilità di un cambiamento tutti insieme, cambiamento da declinarsi in modo diverso a seconda delle diverse responsabilità politiche, e anche messaggi in una bottiglia per un’assunzione bipartisan tra destra e sinistra al di là delle ricette e degli strumenti, ma sugli obiettivi di cambiare il mercato del lavoro per superare alcune rigidità che in realtà erano iniquità

Vi confesso che di fronte a questi richiami mi sono chiesto dove eravamo noi riformisti del centrosinistra. C’erano i convegni in cui si diceva che sì, la filosofia del Libro bianco va bene. Però era un “sì va bene, ma”, sì va bene senza mai combattere una battaglia culturale per l’egemonia culturale all’interno del centrosinistra. Si dice “non erano i tempi”. I tempi sono cambiati dopo, sono maturate tante cose, allora c’era a capo del governo qualcuno per cui non era periodo di condividere degli obiettivi.

Io penso che a volte se si ha troppa paura di fare dei Don Chisciotte perché i tempi non sono maturi, si rischia un po’ di fare i Don Abbondio e quindi mi resta il dubbio se quella occasione non sia stata un’occasione persa.

Gli obiettivi di fondo che ci indicava Marco Biagi e quelli, senza volere fare nessun parallelismo improprio, della recente riforma del mercato del lavoro, al di là degli strumenti, può essere che molti siano diversi. Per esempio, negli scritti di Marco Biagi, ho trovato molta enfasi sulla decentralizzazione,  sul federalismo delle decisioni nel mercato del lavoro. è innegabile che adesso stiamo andando un po’ nella direzione diversa, c’è una ri-centralizzazione delle responsabilità sul mercato del lavoro, c’è un’enfasi diversa su flessibilità in entrata e in uscita, la riforma Biagi è stata la riforma della flessibilità in entrata, il job- act è la riforma della flessibilità in uscita, la rottamazione del tabù dell’articolo 18 per aggredire il nodo della flessibilità del tempo indeterminato. Però, al di là delle differenze di questi strumenti, trovo due obiettivi che accomunano i due approcci, le due spinte riformatrici. La prima è quella dell’occupabilità e della qualità: l’enfasi sulla qualità del lavoro. Non solo numeri, ma anche un lavoro che sia un investimento in capitale umano, che sia una ragionevole prospettiva di stabilizzazione all’interno del mercato. La riforma Biagi, il Libro bianco, ha affrontato questo nodo dal lato della flessibilità in entrata, dicendo che dobbiamo ridurre il lavoro nero, dobbiamo ridurre il dualismo del mercato fra chi sta dentro e chi sta fuori, fra disoccupati, lavoratori irregolari, dando più flessibilità che permette a chi sta fuori di entrare in quella cittadella della disoccupazione. Il Jobs-act fa un’operazione diversa: prende atto che dopo che è stato tolto questo tappo perché c’è stato un aumento dei livelli occupazioni grazie a nuove forme contrattuali, si è creato un dualismo all’interno degli occupati fra chi ha un lavoro a tempo indeterminato e chi ha lavori flessibili e quindi toccando il nodo delle tutele crescenti, rendendo crescenti nel tempo graduale la tutela in caso di separazione, di recesso di un lavoro a tempo indeterminato, cerca di aggredire questo dualismo, cerca di aumentare il dinamismo e di togliere un po’ di alibi, un po’ di paura verso le assunzioni a tempo indeterminato proprio perché ci sia da subito, senza paura di assumere un investimento tra domanda e offerta di lavoro, tra datore e lavoratore.

La seconda direttrice è quella dell’equità e dell’inclusione attiva. Superare il dualismo per aumentare la qualità dell’occupazione, ma anche proteggere chi non riesce da subito a competere in un mercato più mobile, più dinamico. E qui ci stanno le sfide che stavano già nel libro bianco e che poi non sono state realizzate. Una è stata presa di petto dal Jobs-act, la riforma degli ammortizzatori sociali. Ne hanno parlato tutti i governi di centrodestra e di centrosinistra della seconda Repubblica sempre però con l’idea che si potesse fare a margine, ritoccando qua e là qualche dettaglio senza maggiori oneri per lo Stato e invece no, questo non era possibile il Jobs-act ha cercato di prendere di petto questo problema con un investimento di due miliardi aggiuntivi di risorse che aumentasse la generosità di quella rete di sussidio di disoccupazione sia nella durata temporale, sia nel livello di protezione economica, ma anche con una riforma degli ammortizzatori sociali e della cassa di integrazione che riconducesse quelli strumenti a loro tutela in costanza di rapporto. Quindi uno spostamento di enfasi dalla tutela del posto del lavoro a una tutela del lavoratore nel mercato

L’altra sfida stava negli scritti di Biagi, stava nel Libro Bianco sta nel Jobs-act questa purtroppo è ancora una sfida aperta. Io ripeto spesso che il Jobs-act si regge su quattro gambe. Una è il nuovo contratto a tutele crescenti, una è la stretta sulle finte partite IVA, una è la riforma degli ammortizzatori sociali, la quarta sono le politiche attive, prendere in carico chi resta senza lavoro con una competizione virtuosa tra pubblico e privato per dargli servizi di qualità.

Ebbene, questa quarta gamba, non possiamo negarcelo, ancora non c’è ed è una gamba necessaria per reggere il tavolo della riforma, quindi va costruita velocemente, va costruita rapidamente è una gamba che non fai con un decreto in cui dici “da domani tutti hanno diritto alle politiche attive alla svedese”, la fai solo rimboccandoti le maniche con la pazienza certosina dell’implementazione amministrativa, della capacità istituzionale di costruire questa rete di servizi mettendo a frutto appunto la competizione tra pubblico e privato. Questa gamba va messa subito altrimenti l’impianto riformatore non regge.

Chiudo su un altro tema. Questi sono temi più dibattuti e al centro dello scontro politico nei due decenni che ci lasciamo alle spalle, ma c’è un altro tema che ritroviamo negli scritti del Prof. Biagi e che sta dentro  comunque tra le priorità di chi ha a cuore un nuovo sistema di regole del nostro mercato del lavoro. È un tema più scivoloso perché ha a che fare con l’autonomia delle parti sociali, ma una volta messo mano ai contratti individuali di lavoro, agli strumenti che aiutano i lavoratori nel mercato, gli strumenti di ammortizzatori sociali e di politiche attive, c’è il tema di come si rapportano le parti sociali nel mercato del lavoro. Come la contrattazione collettiva e in quale cornice, con quali regole di esigibilità, la contrattazione collettiva si deve svolgere. Scriveva il Prof. Biagi nell’agosto del 2001 che su questi temi al Governo si deve chiedere di fare un po’ come la Commissione europea. Se ritiene che una certa materia vada regolamentata, deve avvertire le parti sociali chiedendo loro se intendono provvedere per contratto. Se il negoziato collettivo darà esito positivo, il Governo si limiterà a comandare al Parlamento la conferma di quanto concordato. Solo se la trattativa rimarrà infruttuosa, il governo potrà fare proposte autonome in materia sociale e del lavoro. Io credo che questo sia un metodo utile, riconoscere l’autonomia e la responsabilità delle parti sociali rispetto alla regolamentazione di come si incontrano, di come contrattano nel mercato del lavoro, però questo non vuol dire abdicare al ruolo del governo ma avere una cornice soft, una cornice leggera, perché proprio se ci sta a cuore la rappresentanza e l’autonomia delle parti sociali dobbiamo dargli quella cornice che gli permetta di incontrarsi. A volte non ci si incontra perché non si sa bene quali sono le regole del gioco in cui si deve contrattare e quali esiti di assumersi una responsabilità nel compromesso, una responsabilità nello scambio che faccio nella contrattazione collettiva che faccio per esempio a livello aziendale o territoriale.

Aggiungeva Biagi che il faro dovrebbe essere il principio di maggioranza e io mi trovo d’accordo. Penso che dobbiamo arrivare a  un sistema di regole e di esigibilità di quella contrattazione in cui vale semplicemente il principio di maggioranza in cui anche nelle relazioni industriali ci si abitua al fatto che esercitare il diritto di critica su quanto concordato da altre organizzazioni non significa paralizzare il processo decisionale, se non c’è l’unanimità si decide a maggioranza senza la minaccia di ricorrere in tribunale o alla piazza. Penso che questo tema di come avere una regolazione soft che dia una cornice alla contrattazione collettiva sia ormai maturo e che sia forse l’ora di rimettere mano al principio di maggioranza, delle regole della rappresentanza e della esigibilità della contrattazione collettiva anche a questo cantiere di riforme.

Chiudo semplicemente dicendo che vi ho voluto citare questi articoli non per legare nessuna azione del Governo agli scritti di Biagi, non avrebbe senso, sarei la persona meno indicata a farlo. Ho voluto solo citarlo perché ancora leggendoli si sente vivo gli stimoli, gli insegnamenti e la visione che c’era in quegli scritti.

Fatemelo dire, si sente la mancanza per una nuova generazione che ha responsabilità nel policy making rispetto a questi problemi, di un interlocutore di questo livello. Ovviamente, se sentiamo la mancanza noi che non abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, posso solo immaginare come si senta chi questa fortuna l’ha avuta. Non mi riferisco solo ai suoi cari, ma agli studenti, gli studiosi e i colleghi che hanno avuto questa fortuna. A loro, porto il mio abbraccio personale e del governo.