Il Riformista

Altro che superbonus e quota 103: precari e disoccupati, sono loro i dimenticati dalla politica

Tommaso Nannicini
Lavoro/#lavoro

Nel 1908 il governo britannico introdusse per la prima volta una pensione di vecchiaia per chi aveva redditi bassi e più di settant’anni. Quando, superato lo stupore iniziale, gli anziani cominciarono a recarsi agli uffici postali per ricevere gli scellini a cui avevano diritto, molti si presentarono con mazzi di fiori e ceste di mele, per contraccambiare un atto di generosità pubblica ai limiti dell’incredibile. Questa storia, raccontata da Maurizio Ferrera nel suo magistrale “Modelli di solidarietà” (il Mulino, 1993), se raffrontata all’immagine di proteste di piazza e insulti alla politica che scattano ogni volta che si prova a ridefinire i capisaldi dello stato sociale, la dice lunga su come siano cambiate le aspettative rispetto ai diritti materiali, quei diritti che hanno bisogno di soldi pubblici per funzionare.

Nei decenni passati, la spirale di aspettative crescenti e l’hackeraggio del welfare da parte della classe media, ci ha spesso portati a pensare che lo stato sociale avesse bisogno di una cura dimagrante. E in alcuni casi era giusto darsi una calmata (si pensi alle baby pensioni o alle case regalate ai ferrovieri). Ma le energie politiche e intellettuali che abbiamo dedicato a questo restyling ci hanno distolto da un compito che sarebbe stato più importante: individuare i nuovi rischi e le nuove fragilità a cui un diverso stato sociale avrebbe dovuto dare risposte. Demografia, emancipazione, tecnologia, ecologia: basta pensare a queste grandi trasformazioni per capire che il contratto sociale su cui si basava il welfare del ‘900 ha bisogno di essere riscritto. Senza contratto sociale funzionante non c’è coesione tra chi appartiene alla stessa collettività e non c’è equilibrio tra chi appartiene a generazioni diverse.

Ridefinire le norme, scritte e non scritte, che ci tengono insieme: è questo il compito della politica, anche se molti non se ne sono accorti o fanno finta di niente. Si tratta di un compito enorme, che niente ha a che fare con i tagli al cuneo fiscale, la maggior tutela nel mercato elettrico, i bonus edilizi, le quote 103 o affini. E che niente ha a che fare col solito derby tra Stato e mercato, tra statalisti e liberisti, gli uni contro gli altri armati. Roba da Novecento. Roba da convegni. Stato e mercato sono strumenti, dobbiamo farli funzionare e capire quando serve l’uno o l’altro a seconda dell’obiettivo. Senza dimenticarci del “terzo settore”, che spesso è l’unico collante rimasto in alcune comunità. In fondo da noi, liberismo e statalismo non si sono mai visti davvero. Si sono visti esempi più o meno riusciti d’intervento pubblico o di politiche per la concorrenza. Ma solo esempi. L’Italia è stata modello di altro in politica economica: corporativismo, familismo. Su liberismo e statalismo ci siamo accapigliati senza applicarci troppo. Adesso basta.

Al centro di un nuovo contratto sociale non può non esserci un futuro dove nessuno sia lasciato solo nella fatica del cambiamento. I disoccupati, i giovani in cerca di prima occupazione, i lavoratori e le lavoratrici precarie o a rischio di perdere il posto di lavoro: sono loro i dimenticati delle nostre politiche di welfare, prima e durante la pandemia. Le politiche contro la povertà non bastano. Se perdi un lavoro, lo Stato non deve aspettare che perdi anche la casa per aiutarti (visto che le misure contro la povertà sono sottoposte alla prova dei mezzi). Serve una forte garanzia del reddito agganciata a servizi personalizzati di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro: un reddito di formazione. Serve un nuovo spezzone di stato sociale, che assicuri dai rischi che imprese, lavoratori e lavoratrici affronteranno sull’onda della transizione digitale e della rivoluzione verde: un sistema di formazione permanente di massa. Sottolineo: “di massa”.

Quando hai un bambino di sei anni da mandare a scuola, sai che dietro l’angolo c’è un istituto e ti interroghi sulla qualità dei docenti. Dobbiamo fare lo stesso con la formazione permanente, per renderla un diritto soggettivo realmente esigibile, attraverso un’infrastruttura di luoghi – ben finanziati, valutati e monitorati nei risultati – in cui gli individui ricevano servizi al lavoro personalizzati. Con una presa in carico pubblica e digitale, ma con servizi erogati ispirandosi ai principi di sussidiarietà, facendo leva su comuni, università, istituti scolastici, centri di formazione, terzo settore. La grande sfida dello stato sociale di oggi è la formazione permanente di massa, nello stesso modo in cui lo sono state l’istruzione obbligatoria, la sanità pubblica e tutti quei frangenti in cui abbiamo costruito infrastrutture che hanno profondamente cambiato il nostro contratto sociale. Reddito di formazione, tempo di base (ne abbiamo parlato sabato scorso), innovazione e formazione permanente: ecco gli strumenti da mettere a fuoco per scrivere un nuovo contratto sociale. Keynes sosteneva che i politici si basano spesso sulle idee di economisti morti. Forse, a questo giro, visto che il tempo scarseggia, sarebbe utile leggere anche i vivi. Daron Acemoglu, Dani Rodrik, Claudia Goldin, Minouche Shafik, Amartya Sen: ecco qualche lettura che non farebbe male alla politica. Ne parleremo oggi a Ragusa Ibla alla “Scuola dei beni comuni” con i promotori e gli iscritti a questa bellissima iniziativa. Ora più che mai: ridateci la politica.

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