Il Sole 24 ore

Professionisti, il doppio integrativo ostacola le STP

Tommaso Nannicini
Lavoro/#STP

L’unione fa la forza, anche per le lavoratrici e i lavoratori autonomi. Nel 2011, dopo anni di convegni, il legislatore italiano, nella convinzione che la crescita del comparto dei servizi alle imprese e ai consumatori sarebbe necessariamente dovuta passare dall’aggregazione dei professionisti in strutture multidisciplinari specializzate, varò la società tra professionisti (STP), consentendo finalmente l’utilizzo dei modelli societari tradizionalmente propri dell’attività d’impresa anche per l’esercizio delle professioni. A distanza di oltre 10 anni anche agli osservatori più distratti non può sfuggire che il modello STP non si è mai affermato, come dimostrano i dati richiamati dal Sole24Ore del 3 aprile. Su una platea di circa 1,4 milioni di professionisti iscritti alle casse di previdenza, infatti, a ottobre 2021 le società tra professionisti erano poco meno di 4.600. Questi numeri vanno letti alla luce di tre considerazioni.

Prima. Va sottolineato come la scelta della società tra professionisti non sia stata omogenea nel corso del tempo: se a maggio del 2018 ne risultavano iscritte alle camere di commercio poco più di 2.300, è evidente come negli ultimi anni – nonostante la pandemia – il modello societario abbia trovato un nuovo slancio.

Seconda considerazione. Va rilevato come negli scorsi mesi, proprio a causa della pandemia, sia caduta la falsa percezione sulle condizioni socio-economiche dei liberi professionisti italiani: le casse di previdenza, infatti, hanno erogato indennità straordinarie di sostegno al reddito a oltre 500mila professionisti. Numeri che in pochi si sarebbero aspettati, ma che non sono una sorpresa per chi aveva osservato come nei 15 anni precedenti il reddito medio dei professionisti si fosse ridotto, in termini reali, di circa il 15%. Un andamento che potrebbe essere invertito anche attraverso un processo di riorganizzazione degli studi professionali verso modelli aggregati, multidisciplinari e specializzati, più idonei a prestare servizi a maggior valore aggiunto.

Terza considerazione. Se si condividono le tendenze e gli obiettivi di cui sopra, devono essere rimosse le criticità di un quadro normativo che non favorisce, anzi spesso disincentiva, i processi di aggregazione dei professionisti. Mi riferisco sia alle norme fiscali sia, soprattutto, ai vincoli di natura previdenziale. Come noto, infatti, l’esercizio della professione in STP di capitali o cooperative viene generalmente regolato attraverso un meccanismo di doppia fatturazione (prima in capo alla STP nei confronti del cliente, poi in capo al socio professionista nei confronti della STP): automatismo che determina la duplicazione del contributo previdenziale integrativo imposto sulla medesima prestazione professionale. In merito, va osservato che l’eterogeneità dei regolamenti varati dalle diverse casse di previdenza fa sì che tale effetto distorsivo non si produca universalmente, ma soltanto laddove sia previsto il versamento del contributo integrativo sia sul volume d’affari della STP sia su quello dei soci professionisti, come ad esempio per i commercialisti.

Si tratta di una distorsione ingiustificata e orizzontalmente iniqua, che il legislatore dovrebbe rimuovere con il primo provvedimento utile. Sarebbe un piccolo, ma concreto, segnale che per la politica le STP non sono tornate tema da convegni, ma un modello da incentivare. È evidente, infatti, come lo sviluppo e la riorganizzazione degli studi professionali verso modelli aggregati, integrati e multidisciplinari favorirebbe il duplice obiettivo – da una parte – di soddisfare una crescente domanda di servizi complessi e “su misura” e – dall’altra – di sostenere remunerazioni e forme di protezione sociale adeguate per coloro che si affacciano su un mercato sempre più competitivo. Ed è altrettanto evidente che questi obiettivi non possono continuare a essere frenati da vincoli regolamentari che sarebbero considerati eccessivi persino in un romanzo di Kafka.