La Repubblica

Campagne elettorali “contro”

Tommaso Nannicini, Vincenzo Galasso
Democrazia/#campagna elettorale

Si avvicinano le elezioni europee. Poco dopo arriveranno quelle americane. Di pari passo, cresce la voglia di demonizzare gli avversari durante la campagna elettorale, anche senza aspettare che ci pensino le infiltrazioni russe nella comunicazione politica a rendere il clima più tossico. Negli Stati Uniti, la rivincita Biden-Trump si annuncia come una delle campagne più aggressive della storia. In Italia, serpeggia la voglia di trasformare le elezioni europee in un referendum pro o contro Meloni.

Nel mondo della pubblicità, gli spot “contro” – il negative advertisement – sono consentiti solo in politica. Trump può scagliarsi contro Biden accusandolo di essere troppo vecchio e di non avere più le capacità mentali per guidare il paese. Ma avete mai visto una pubblicità dell’iPhone attaccare i cellulari della Samsung? La pubblicità negativa è molto diffusa negli Stati Uniti sin dalla sua prima apparizione nel 1964, quando l’allora Presidente Lyndon Johnson accusò lo sfidante repubblicano, Barry Goldwater, di spingere il paese sul baratro della guerra nucleare con l’Unione Sovietica. Da allora, le campagne elettorali di tutti i candidati alla presidenza, sia democratici sia repubblicani, sono state prevalentemente negative. Ma anche in Italia le campagne elettorali “contro” sono ormai diventate la norma. Secondo uno studio di Amnesty International, in cui sono stati analizzati quasi 30.000 contenuti unici pubblicati su Facebook e Twitter da poco meno di cento esponenti politici nei due mesi precedenti le elezioni politiche del 2022, più del 30% dei post si sono rivelati negativi, il 10% da considerare problematico, l’1% una forma d’incitazione all’odio.

Ma perché – soprattutto in campagna elettorale – i politici scelgono di essere oppositivi, anziché propositivi? Perché demonizzare gli avversari anziché presentare le proprie idee o, nel caso dei politici al potere, ricordare agli elettori quanto di buono si è stati capaci di fare? Attaccare gli altri aiuta a vincere le elezioni? La pubblicità politica aggressiva, “contro” gli avversari, ha tipicamente il vantaggio di essere efficace nel catturare l’attenzione di chi vota. In un mondo in cui, tra social media e media tradizionali siamo esposti a quasi diecimila pubblicità al giorno, non si tratta di un vantaggio di poco conto. Inoltre, le campagne negative possono ravvivare l’entusiasmo dei propri sostenitori, spingendoli alle urne per arrestare l’avanzata del nemico.

Tuttavia, le campagne elettorali “contro” hanno anche degli svantaggi. L’incitamento all’odio per l’avversario politico aumenta la polarizzazione e mina la vita politica e sociale di un paese. Ma oltre ai costi sociali – per la democrazia – esistono anche svantaggi diretti – in termini di perdita di voti – che i partiti farebbero bene a considerare. Tre studi che abbiamo condotto nel corso degli anni ci aiutano a identificare questi costi. Il primo studio mostra che elettori ed elettrici rispondono in maniera molto diversa agli attacchi elettorali dei politici. Le donne tendono a punirli, gli uomini a premiarli. Il secondo studio mostra che, tra due litiganti, il terzo gode. Sia chi manda un attacco elettorale sia chi lo riceve, per ragioni diverse, tende a perdere voti, a favore di chi si tiene lontano dagli eccessi di aggressività elettorale. Il terzo studio mostra che è meglio non rispondere al fuoco col fuoco. I partiti non-populisti possono cadere nella tentazione di rispondere ai continui attacchi dei populisti ripagandoli con la stessa moneta, per esempio dipingendoli come una nuova élite opportunista e corrotta. Questa strategia può portare qualche vantaggio elettorale nel breve periodo, rispingendo nell’astensione elettori inclini al voto populista. Ma nel medio periodo ha effetti controproducenti (per chi li manda), diminuendo la fiducia nella politica e favorendo il successo elettorali di nuovi populisti più credibili (e spesso più aggressivi) dei precedenti.

Insomma, chi si fa tentare dalla voglia di fare campagna elettorale attaccando gli avversari farebbe bene a soppesarne i costi e i benefici. Resta da capire perché la pubblicità “contro” sia così diffusa in politica, anche se spesso non funziona. Forse la risposta ha a che fare con il declino dei partiti politici e della loro capacità di affermare una visione positiva e coerente della propria proposta politica, giorno per giorno, territorio su territorio. Scomparso questo radicamento, quando arrivano le elezioni, non resta che attaccare gli avversari. Che però è una droga, che debilita la fiducia nella politica e genera ancor più aggressività. Forse è giunto il momento di pensare a come disintossicarci.