La discussione sui temi del lavoro, in questo finale di legislatura, appare completamente assorbita dalle esigenze di posizionamento di correnti e partiti, esistenti o futuribili che siano. Qualcuno si domanda quali riforme dei governi Renzi e Gentiloni vadano cancellate o messe in discussione per allargare il campo del centrosinistra. La domanda da porsi, secondo noi, è tutt’altra: come dobbiamo completare quelle riforme per rendere più forti i diritti di chi lavora, gli investimenti in capitale umano, la capacità di innovare e creare valore aggiunto delle nostre imprese? Solo rispondendo a questa domanda il PD può lenire la fatica di anni di governo tanto importanti quanto difficili e guardare avanti. Orgoglioso dei risultati raggiunti, come la crescita e quasi un milione di posti di lavoro in più, ma consapevole che la strada è ancora lunga.
Il rapporto del Censis, da ultimo ma non da solo, identifica nel retrocedere dell’ascensore sociale il più grave problema del Paese. Quell’ascensore è bloccato in primis per i giovani, che vivono transizioni lunghe e incerte fra studio e lavoro, e spesso scelgono di emigrare per far valere le loro competenze. È il frutto avvelenato di un Paese che nella Seconda Repubblica ha rinviato per decenni le riforme necessarie per tornare a crescere. A molti di questi giovani la decontribuzione contenuta nella legge di bilancio darà una mano, soprattutto laddove rafforzerà il neonato sistema duale tra formazione e lavoro. Così come una mano l’hanno data i precedenti sgravi contributivi, le nuove tutele per i professionisti e gli oltre 2 miliardi investiti sulla Naspi, l’assicurazione per la disoccupazione che non discrimina più in base all’età. In futuro, per completare il percorso avviato dal Jobs act, servirà un taglio strutturale del cuneo contributivo per il lavoro stabile.
Ma il costo del lavoro è solo una delle leve da azionare. Rimangono da risolvere problemi di concorrenza, di qualità dell’offerta formativa, di rendite da rimuovere, di servizi da migliorare. Abbiamo investito molto su scuola, ricerca e diritto allo studio, ma dobbiamo ancora lavorare per rendere il nostro sistema di istruzione e formazione un vero motore di eguaglianza delle opportunità e innovazione. Il nuovo assegno di ricollocazione deve andare subito a regime e il ruolo di regia di Anpal nella rete delle politiche del lavoro va rafforzato.
C’è, infine, un problema salariale. Le retribuzioni in Italia sono basse e crescono solo con l’anzianità. Alla base non c’è solo la produttività stagnante: come ha ricordato recentemente il Presidente dell’INPS in audizione alla Camera, la massa di “working poors” si allarga nel Paese, impiegati in lavori a bassa qualificazione e tutele inesistenti. I tempi sono maturi per due misure: (1) un salario minimo legale che, senza svilire il ruolo di garanzia della contrattazione collettiva, rafforzi tutti i lavoratori; (2) un conto personale di attivazione, seguendo l’esempio francese, che contenga strumenti di orientamento, garanzia del reddito e formazione lungo tutta la vita e al passo con il dinamismo del mercato del lavoro.
Di fronte all’enormità di queste sfide, non ha senso tornare a lacerarsi sulla disciplina dei licenziamenti individuali. Il contenzioso negli ultimi anni è crollato. Il problema sono i posti di lavoro: la loro quantità e soprattutto la loro qualità. Il “rancore”, per dirla col Censis, non si sconfigge finché la disoccupazione è sopra al 10%. Creare posti di lavoro, raddoppiare i risultati di questi tre anni, deve essere il nostro mantra. O ci occupiamo del futuro, proseguendo nel cammino delle riforme avviate in questi anni, o domani sarà troppo tardi. E nessuna alleanza elettorale o formula politicista ci potrà salvare.