Quando si parla di stipendi che non bastano a fine mese, perdita di potere d’acquisto e lavoro povero, il pensiero corre subito a lavoratori e lavoratrici dipendenti: i commessi del nostro supermercato, le autiste dell’autobus che ci porta al lavoro, gli impiegati del comune dove rinnoviamo i documenti, le addette della nostra banca. Raramente pensiamo invece a lavoratori e lavoratrici autonome: al commercialista che ci aiuta a pagare le tasse, all’avvocata che ci assiste nelle liti condominiali, al grafico che rende più efficace la nostra comunicazione. Eppure, anche per loro, negli ultimi anni, i redditi reali — cioè al netto dell’inflazione — hanno subito duri colpi.
I liberi professionisti italiani hanno attraversato crisi, riprese, pandemie e inflazione, ma, a distanza di quindici anni dalla Grande Recessione, non hanno ancora recuperato il potere d’acquisto perduto nel 2008. Lo certifica un nuovo rapporto realizzato dall’Osservatorio delle libere professioni, la fondazione promossa da Confprofessioni. Il rapporto, intitolato “Liberi professionisti e potere d’acquisto”, curato da Ludovica Zichichi, Giulia Palma e Camilla Lombardi, ricostruisce l’andamento dei redditi reali e nominali dal 2008 al 2023, con un confronto tra autonomi e dipendenti.
Il quadro generale è chiaro: i redditi nominali — cioè non corretti per l’inflazione — sono cresciuti, ma non abbastanza da tenere il passo con l’aumento dei prezzi. In termini reali, le famiglie di dipendenti e autonomi guadagnano meno di prima della crisi finanziaria. Le differenze tra i due mondi, però, non mancano. Tra il 2008 e il 2015, i redditi nominali delle famiglie in cui il principale percettore ha un lavoro autonomo sono calati del 10%, mentre quelli dei dipendenti hanno tenuto. Anche nella fase successiva, il recupero è stato a velocità diverse: nel 2023 i redditi nominali dei dipendenti erano saliti del 20% rispetto al 2008, contro il 17% degli autonomi. Ma l’inflazione, soprattutto quella esplosa tra il 2022 e il 2024, ha eroso gran parte di questi guadagni, rimasti tali solo sulla carta. In termini reali, la perdita è netta: -13% per le famiglie con lavoratore autonomo come principale percettore di reddito, contro -10% per quelle con dipendente. Tradotto in cifre, significa circa 5.200 euro in meno l’anno per gli autonomi e 3.500 per i dipendenti.
Queste tendenze sono confermate dall’analisi dei dati individuali dei professionisti iscritti alle Casse di previdenza privata e dei dipendenti del settore privato non agricolo. Tra il 2008 e il 2015, i redditi nominali dei professionisti iscritti alle casse sono calati dell’11,8%. Dopo anni di stagnazione, una lenta ripresa ha permesso di superare nel 2022 i livelli pre-crisi. Ma non è bastato: al netto dell’inflazione, il reddito reale resta inferiore dell’8%. Perché? Secondo il rapporto, i professionisti sono meno protetti dall’erosione del potere d’acquisto. Pur potendo teoricamente adeguare i compensi, si trovano spesso a dover trattare con committenti forti, come pubblica amministrazione e grandi aziende, che impongono condizioni poco negoziabili. Inoltre, l’aumento del numero di iscritti agli ordini e alle casse previdenziali non è stato accompagnato da una crescita proporzionata nella domanda di lavoro.
Anche i dati Inps sulla Gestione separata confermano questa tendenza, se non addirittura un peggioramento: tra il 2017 e il 2023, i professionisti con posizione prevalente registrano un calo del reddito reale dell’8,9%.
I lavoratori dipendenti, dal canto loro, hanno seguito un percorso più lineare, ma non per questo più rassicurante. Una crescita nominale modesta — meno di 3.000 euro in 14 anni — non è bastata a tenere il passo con l’inflazione, soprattutto nell’ultimo triennio. E così, anche per loro, il potere d’acquisto resta indietro di quindici anni.
Il rapporto targato Confprofessioni lancia un messaggio anche alla politica: servono risposte concrete per i professionisti, vecchi e nuovi. Risposte che non possono passare solo dalla leva fiscale, per quanto importante. Il lavoro autonomo ha bisogno di strumenti reali di sostegno. A partire dal rilancio delle deleghe inattuate della Legge 81 del 2017: dal rafforzamento degli strumenti di welfare allargato offerti dalle casse previdenziali, all’individuazione degli atti della pubblica amministrazione che possono essere affidati anche ai professionisti. Le amministrazioni pubbliche, dal canto loro, dovrebbero applicare davvero l’equo compenso e semplificare gli adempimenti per tutte le partite Iva, applicando il principio “una volta sola”, che eviti di dover fornire gli stessi dati a più uffici pubblici. E poi: formazione, formazione, formazione. Con crediti d’imposta per i giovani professionisti e incentivi agli investimenti in intelligenza artificiale. Infine, per le casse previdenziali, è tempo di eliminare la tassazione sui rendimenti realizzati, per evitare la doppia imposizione, e di consentire l’offerta di pensioni complementari, rafforzando così la loro sostenibilità e il risparmio previdenziale dei professionisti. Una riflessione su queste o altre proposte, dati alla mano, non può essere rinviata oltre.
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