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Dal segno meno al segno più

Tommaso Nannicini
Economia/#crescita

L’Ocse ha appena rivisto al rialzo le previsioni di crescita del Pil italiano: 1,6% per il 2017 e 1,5% per il 2018, a fronte rispettivamente dell’1,4% e dell’1,2% stimati a settembre. Un’ulteriore certificazione, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che l’Italia si è definitivamente lasciata alle spalle una delle più pesanti recessioni della sua storia recente. Ma se è vero che siamo finalmente riusciti a passare dal segno meno al segno più e poi a salire stabilmente oltre l’1%, è altrettanto vero che cresciamo a un ritmo tuttora insufficiente. Al contrario di Francia, Spagna e Germania il nostro prodotto interno lordo è ancora al di sotto dei livelli precedenti alla crisi: fatto 100 il valore del Pil nel primo trimestre del 2008, noi siamo ancora fermi a 94,2 mentre gli altri hanno già superato quota 100 (questo anche perché il crollo subito durante la crisi è stato più profondo da noi che altrove).

Quello che però i dati sul Pil non dicono, o dicono solo in parte, è che sul fronte dell’occupazione abbiamo fatto in alcuni casi anche meglio dei paesi sopraccitati. E questo grazie soprattutto a interventi strutturali come il Jobs act: il numero di occupati totali nella fascia 15-64 anni, aumentati di quasi un milione di unità dal 2014, è tornato – quello sì – ai livelli pre-crisi, facendo segnare una performance migliore sia della Spagna sia (per quanto riguarda i posti a tempo indeterminato) della Francia. Paesi che tra l’altro hanno potuto contare in questi anni su una più ampia libertà di spesa in disavanzo, che ha permesso loro di mettere in campo politiche espansive di più largo respiro. Ecco due differenze tra l’Italia e gli altri paesi da tenere ben presenti: politiche di bilancio meno espansive e riforma strutturale del mercato del lavoro. Per carità: i minori margini di flessibilità di bilancio derivavano (e deriveranno anche in futuro) dal fardello del nostro debito pubblico. Ma queste due differenze ci dicono che la strada seguita nelle ultime leggi di bilancio dai governi Renzi e Gentiloni aveva poche alternative.

La strategia economica dei mille giorni si è basata su un mix di riforme strutturali e di leve congiunturali. Da una parte, riforme strutturali disegnate per rilanciare la crescita potenziale, gli investimenti e la produttività nel lungo periodo. E dall’altra leve congiunturali per dare ossigeno a famiglie e imprese nel breve periodo, a fronte dei costi delle riforme e di una ripresa ancora lenta. Questo mix è stato perseguito continuando il percorso di consolidamento fiscale (irrinunciabile in un paese con il nostro debito pubblico), ma a un ritmo più lento rispetto agli impegni eccessivamente onerosi che ci eravamo assunti in passato. Seguendo, per dirla con Giampaolo Galli, una “terza via pragmatica” tra austerità e politiche keynesiane.

In verità, proprio la storia economica del nostro paese ci ricorda che esiste un motivo tutto “keynesiano” per essere austeri nei periodi di vacche grasse. Proprio chi ha a cuore le politiche anti-cicliche o la spesa pubblica per fini redistributivi dovrebbe salvaguardare il rigore di bilancio in tempi “normali”: perché entrambe le opzioni sono fortemente ostacolate da un debito elevato e da un’alta spesa per interessi. Ciò non toglie che essere troppo austeri in un periodo di vacche magre sia invece una strategia un po’ “tafazziana”. Strategia che purtroppo l’Europa ha perseguito a lungo a causa della mancanza di fiducia al proprio interno e di un sistema di governance capace di fronteggiare le emergenze. Per evitare che l’errore si ripeta in futuro, serve una vera unione fiscale della zona euro per gestire la domanda aggregata in maniera comune; un’unione fiscale che risponda a un’autorità politica dotata di legittimità democratica a livello europeo e non inter-governativo. E, accanto a ciò, serve ovviamente che ogni paese continui un percorso di riforme orientate alla crescita di lungo periodo.

Nelle nostre discussioni sui media tradizionali o su quelli 2.0 (spesso dettate da interessi politici o narcisistici di corto respiro) tendiamo a legare gli andamenti dell’economia esclusivamente alle scelte della politica. Non è così. E questo ci ricorda che senza un rinnovamento vero della classe dirigente (tutta, non solo quella politica) non andremo lontano. Ma le scelte di politica economica hanno naturalmente un peso. E da questo punto di vista è difficile non evidenziare come i dati incoraggianti fatti registrare dall’Italia negli ultimi tempi siano legati anche a interventi che stanno dispiegando gradualmente i propri effetti. Tra l’altro, molti interventi di politica economica orientati a rilanciare gli investimenti e a favorire la riconversione strutturale del nostro tessuto produttivo produrranno risultati (sul piano economico e anche su quello di finanza pubblica) solo nell’arco dei prossimi anni: è il caso per esempio del taglio dell’Ires, così come del super e dell’iper-ammortamento.

Molto resta ancora da fare: aver invertito la rotta è solo un primo passo. La direzione però è quella giusta: proseguire cioè nel solco di politiche di consolidamento fiscale non “tafazziane” e di riforme strutturali orientate alla crescita. Partendo dalla riduzione della pressione e, soprattutto, della complicazione fiscale: per crescere l’Italia ha bisogno di un fisco più semplice, di regole scritte sulla fisiologia dei contribuenti onesti e non sulla patologia degli evasori (che ci sono e vanno combattuti ma con strumenti moderni, non con norme barocche). Ha bisogno di una rivoluzione copernicana nei processi e nelle competenze della pubblica amministrazione, soprattutto di quella centrale. E ha bisogno di più merito e più attenzione verso i destinatari ultimi degli investimenti in scuola
e università (dove dopo anni di tagli si è finalmente tornati a investire risorse): gli studenti, quelli veri, quelli che vedono nell’istruzione uno strumento per mettere a frutto i propri talenti e inseguire i propri sogni, sgobbando e rischiando.

Per raggiungere questi obiettivi servirebbero alcuni prerequisiti tutti politici: credibilità in Europa, stabilità di governo e un dibattito pubblico meno ideologico e più orientato alla concretezza. Requisiti che sembrano tutt’altro che a portata di mano in questa fase, ma che potrebbero materializzarsi se il Partito Democratico si scrollasse di dosso il mix pestilenziale di rassegnazione e rissosità interna per mettersi alla testa delle forze europeiste e riformiste. Il cambiamento non è un pranzo di gala, ma un’azione politica che richiede fatica, lucidità e costanza.