Qui sotto potete leggere la mia intervista all’HuffPost sul tema Jobs act.
Tommaso Nannicini, professore di economia alla Bocconi, già senatore del Pd, è il ‘padre’ del jobs act. Da capo di gabinetto economico a Palazzo Chigi e poi da sottosegretario ha tenuto a battesimo la norma che ora la Cgil si prefigge di cancellare.
Professor Nannicini, possiamo trarre un bilancio di sintesi del Jobs act? A distanza di 10 anni, la norma ha funzionato o no?
Il Jobs act è una riforma fatta in un altro mondo (9 anni fa), così ampia e complessa da essere difficilmente etichettabile (una legge delega, 8 decreti legislativi, più 2 leggi collegate, una sul lavoro autonomo e una sul reddito di inclusione). Una riforma in larga parte inattuata e in piccola parte superata (da una sentenza della Corte costituzionale). Eppure, è una riforma di cui tutti sentono il bisogno di parlare. Spesso a vanvera.
Per la Cgil e per molti critici è una norma che facilita i licenziamenti. Ma non le assunzioni.
Si riferiscono a una parte della riforma, il contratto a tutele crescenti, che non era l’elemento fondamentale allora e ora non esiste più. La Corte ha tolto proprio l’idea che le tutele possano essere “crescenti” in base a quanti anni si passa in azienda, ridando completa discrezionalità al giudice. In ogni modo, finché il contratto a tutele crescenti è esistito, non si è assistito a nessun boom dei licenziamenti. Anzi.
La Cgil propone un referendum abrogativo del jobs act, che situazione si determinerebbe? Un puro e semplice ritorno all’articolo 18?
Il referendum della Cgil non abroga il Jobs act. Non tocca assolutamente elementi fondamentali di quella riforma, dalla Naspi alle politiche attive, dalla stretta alle false partite Iva alla cassa integrazione. Si limita a chiedere di abrogare un decreto legislativo che nei fatti non esiste più, perché la versione che è rimasta dopo la sentenza della Corte non ha niente a che fare col Jobs act. È una discussione lunare. Anche perché una volta abrogato quel decreto si tornerà alla riforma del governo Monti del 2012, allora sostenuta dal Pd di Pierluigi Bersani, che già aveva ridotto l’articolo 18 all’ombra di sé stesso.
Il jobs act è stato negli anni corretto dalla giurisprudenza. Da ultimo dalla Corte costituzionale con tre sentenze. Come hanno operato i correttivi, il Jobs act emendato ha conservato lo spirito originario?
Anche in questo caso, le parti più importanti del Jobs act non sono state toccate dalla Corte. Alcune sono state rimaneggiate dai governi successivi, come le politiche attive. Ma altre, dalla Naspi alla cassa integrazione passando per il Reddito di inclusione, non sono state toccate. Tutti strepitano contro il Jobs act, ma tutti i governi successivi si sono mossi sul solco di quella riforma, a volte ampliandola ma sempre nella stessa direzione. L’unico elemento che è stato cancellato a opera della Corte, come detto, è stato il contratto a tutele crescenti. Farci sopra un referendum è assurdo.
Che giudizio dà dell’iniziativa referendaria della Cgil?
Abolire il precariato per referendum è un po’ come abolire la povertà per decreto. Sono iniziative estemporanee. Le fai solo quando senti che la tua funzione di rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici non funziona come dovrebbe.
Il referendum spaccherà il Pd?
Spero che il Pd non pensi di cavarsela con la storiella che il nuovo corso è per cancellare il Jobs act e che però lascia libertà di coscienza sui referendum. Che vuol dire cancellare il Jobs act? Preso come bandierina ideologica il Jobs act è l’arma perfetta per spaccare il Pd. Se le europee andranno male, chi vuol fare un congresso anticipato contro la segretaria, tornerà a parlarne bene. Se andranno bene, il Jobs act tornerà ad essere criticato da tutti. L’unico modo per disinnescare questa bomba è destrutturare la discussione, entrare nel merito, dire cosa è stato un errore e cosa una scelta giusta da rilanciare, parlare di proposte per il futuro andando oltre. Temo che nessuno lo farà.