Bisogna fare presto. Ci sono un milione di nuovi disoccupati. E c’è in arrivo, a partire da giugno, un’ondata probabile di licenziamenti, con la rimozione del blocco deciso per decreto. Si profila un’emergenza sociale senza precedenti, anche in considerazione dei dati sui nuovi poveri: sono due milioni in più le famiglie in stato di indigenza assoluta secondo Istat, raddoppiate anno su anno. E la politica sembra brancolare nel buio, incapace di dare risposte concrete. «Eppure il quadro è chiaro: ci vuole un reddito universale di formazione e il potenziamento della rete nazionale delle politiche attive, già disegnata dal decreto attuativo del Jobs Act, il 150/2015, con lo Stato che finanzia e decide e le Regioni che garantiscono a tutti i cittadini italiani lo stesso livello di servizio».
A dirlo a Industria Italiana è Tommaso Nannicini, che del Jobs Act è stato estensore e che è oggi senatore Pd nonché professore di economia alla Bocconi. Come professore ed esperto di economia del lavoro ci fornisce la sua strategia per fronteggiare il dramma attuale del lavoro in Italia. Una strategia che è attuabile, a suo avviso, con pochi aggiustamenti rispetto a quanto già esiste e che, grazie ai fondi, parte dell’Ue e parte dello Stato, può essere realizzata in pochi mesi. Vediamo allora come.
«Il dato da cui partire è il milione di posti di lavoro persi per la crisi che non figurano come licenziamenti ma che sarebbero stati una spia sufficiente per comprendere come agire: siamo in ritardo e questo è evidente e innegabile – dice Nannicini – Giovani, partite iva, contratti atipici non rinnovati, donne che non riescono a conciliare la vita professionale con quella familiare. Ci siamo persi per strada la parte più fragile del lavoro, il nostro welfare non è sufficiente per queste categorie. Il blocco dei licenziamenti da un lato e la Cigs dall’altro, hanno cercato di tamponare la situazione di emergenza per altre categorie tutto sommato già più garantite, ma sono state misure che hanno solo rinviato l’ora X. Siamo stati ossessionati nel rimandare questo momento, ma non abbiamo usato il tempo guadagnato per prendere contromisure efficaci. Siamo ancora in tempo? Sì, a patto di non rimandare oltre. Ed è possibile perché in fondo gli strumenti li abbiamo già, vanno solo affinati e potenziati, con il supporto dei fondi economici già disponibili: il terzo ingrediente è quello da aggiungere, ovvero la volontà di agire».
E dunque qual è la strategia da attuare? Innanzitutto prendere la Naspi, il reddito di disoccupazione oggi vigente, e ribaltarlo.
«Io lo chiamerei reddito di formazione e lo erogherei a chi perde il lavoro o lo cerca per la prima volta. Praticamente è necessario rovesciare la condizionalità della Naspi per com’è disegnata oggi. E la Naspi oggi viene concessa solo se si hanno quattro anni di contributi continuativi, il che esclude in automatico molte delle categorie fragili di cui sopra. Il reddito di formazione dovrà invece essere erogato al disoccupato che si impegni ad acquisire competenze che si ritengono per lui necessarie all’inserimento o al re-inserimento nel mondo del lavoro. Ed è necessario rimuovere anche un altro vincolo che fa difetto, il cosiddetto “decalage”, ovvero il fatto che l’assegno si riduca del 3% ogni mese a partire dal quarto mese di disoccupazione».
Una scelta del legislatore dettata dalla volontà di introdurre un incentivo a trovare lavoro. Ma se il lavoro non c’è e non c’è in particolare per determinate categorie di lavoratori, questa riduzione così ripida è un problema.
«Per gli over 50, per esempio, è necessario dar lor tempo per ripensare le competenze e ricollocarsi. Il decalage deve sparire per loro e essere più dolce per tutti gli altri. Questa Naspi rafforzata o reddito di formazione è una garanzia di reddito mentre si compie un percorso in cui ci si mette in gioco. Non si può chiedere a chi perde il lavoro di formarsi, rischiare tutto, riprovare con forza e fiducia senza alcuna certezza. Anche gli acrobati hanno bisogno di una rete di salvataggio».
Un reddito di formazione così concepito è veramente universale: perché esteso a tutti e con servizi personalizzati.
«I lavoratori fragili riceveranno garanzia del reddito che oggi non hanno e formazione potenziata: il che li includerà come mai finora, nelle politiche del lavoro».
E poi servono servizi di orientamento e accompagnamento. È inutile investire in transizione ecologica e digitale con l’idea di creare nuovo lavoro, se nessuno si occupa di individuare questo nuovo lavoro e nessuno accompagna le persone verso di esso.
«Il rischio è che distruggeremo i lavori tradizionali e non permettere a tutti di partecipare a questa distruzione creativa – continua Nannicini – Non bastano politiche di difesa ma servono politiche di attacco: allora dobbiamo sapere quali competenze servono per intercettare questa domanda di lavoro emergente. Dove si acquisiscono queste competenze e come poi si applicano nel mondo occupazionale. Non si lasciano le persone da sole mentre è in atto la distruzione e avviene tutto in una manciata di mesi».
Cambiamenti che una volta avrebbero richiesto anni, l’automazione e la digitalizzazione, adesso si esprimeranno in pochi mesi: ed è per questo che le azioni devono essere quanto mai rapide e precise e tutto sommato anche semplici, usando il meglio di ciò che è già disponibile e potenziandolo.
«C’è bisogno chiaramente anche di soldi, perché le riforme a zero esistono solo negli editoriali degli economisti – afferma Nannicini – e di risorse umane qualificate. Si devono ripensare i centri di formazione a tutti i livelli e i centri per l’impiego. E ci vuole una regia chiara e forte che, anche senza cambiare il titolo V della Costituzione, attribuisca un ruolo chiave allo Stato. Non è possibile che passando da una regione all’altra cambi il livello e il diritto alla formazione. Se la formazione è il nuovo articolo 18, questo deve rispettare lo standard su tutto il territorio nazionale».
Nannicini propone che si rafforzi e rinnovi l’Anpals, che deve assumere il ruolo di agenzia pubblica di coordinamento delle politiche attive con le regioni, con finanziamento dello stato.
«Questo è cruciale, perché chi finanzia decide – spiega il senatore – ed è ciò che fa funzionare la Germania che è uno Stato federale, in cui i Lander hanno un bilancio a sé ma se ricevono i fondi nazionali sulle politiche strategiche eseguono le direttive del controllo centrale. La regia nazionale è necessaria perché le politiche attive devono essere uguali su tutto il territorio nazionale: lo ribadisco, perché davvero si questo non si puà derogare».
Le basi delle politiche attive erano già state tracciate, secondo Nannicini, nel decreto attuativo del Jobs Act, il 150/2015.
«Ma non erano stati stanziati soldi e non avevamo risolto il rapporto tra Stato e Regioni. Senza abbandonare quel disegno, si può procedere con forza. Il mio timore è che si stia andando verso la cancellazione dell’Anpals e della rete nazionale delle politiche attive per centralizzare tutto nella burocrazia ministeriale. E in tal modo dubito che risolveremo i problemi».
Se si prende per buona questa struttura della rete nazionale delle politiche attive, oggi ci sono anche i fondi per finanziarla.
«Nella prima bozza del Recovery erano un po’ evanescenti gli stanziamenti in tema di politiche attive, ora vedremo se saranno portate al centro. Parte delle risorse verranno da lì, ma sarà necessario anche blindare una parte della prossima legge di bilancio per mettere in sicurezza le politiche del lavoro, per riformare gli ammortizzatori sociali, i servizi e le infrastrutture, per poter garantire un welfare davvero universale. Se non ce la facciamo è colpa nostra, se ne discute da anni, adesso i soldi ci sono, le idee pure, si tratta di mettere gli attori a un tavolo».
È ora solo un tema di volontà.
«Ci vuole un patto in cui Stato centrale, regioni e parti sociali facciano la propria parte. Devono essere coinvolte le parti sociali che finora hanno ricevuto da un lato i soldi a pioggia della Cigs e dall’altro il blocco dei licenziamenti e oggi devono essere chiamate a gestire i processi di cambiamento, senza ingessarli. Serve una buona contrattazione, sia a livello nazionale sia a livello decentrato, perché il cambiamento non sia scaricato sui più deboli».
E infine, proprio facendo riferimento ai più deboli, Nannicini invita a salvare la parte buona del Reddito di Cittadinanza, se liberato dall’equivoco di cui è ammantato dalla sua creazione.
«Il Rdc è un reddito di inclusione con più soldi, è uno strumento di cui il nostro welfare aveva bisogno per chi è in condizioni di povertà. È qualcosa che esiste in tutti i sistemi maturi: è un reddito di ultima istanza che serve a chi deve essere riattivato socialmente prima che lavorativamente. Ma va tenuto separato dal reddito di formazione, come non è stato fatto finora, mescolato all’idea dei navigator e del reinserimento del lavoro. Sono due facce della stessa medaglia, ma vanno affrontate con strumenti diversi e complementari. Rdc contro la povertà da un lato e dall’altro il reddito di formazione come strumento per una piena e buona occupazione».
Il tutto nell’alveo di un sistema integrato, che comprenda formazione e accompagnamento al lavoro che devono essere coordinati anche se gestiti da soggetti diversi, e digitalizzati.
«Il punto di arrivo di questo percorso è la digitalizzazione dei processi con la creazione di un codice di cittadinanza attiva, dove confluiscano tutte le politiche passive e attive, per dare servizi personalizzati a tutti e non lasciare nessuno da solo nella fatica del cambiamento che ci attende».