Il Riformista

Pnrr, centralismo sì se è strategia no se è religione

Tommaso Nannicini
Europa/#politica

La Corte dei conti ha bacchettato il governo per la sua smania di “centralizzare” la gestione del Pnrr. A finire sotto accusa sono state la possibilità della Presidenza del Consiglio di fare ispezioni per controllare l’attuazione degli investimenti (che non apparirebbe “coerente con i compiti di mero coordinamento attribuiti dall’articolo 95 della Costituzione alla Presidenza del Consiglio”), nonché tagli di spesa mascherati da “integrazioni” in molti settori. Alcuni giornali hanno subito gridato allo scandalo: il Pnrr finisce sotto accusa, la Corte piccona il governo, e così via. Ma la vicenda più che a gridare dovrebbe servirci a riflettere.

Il primo spunto di riflessione è che il Pnrr da strumento per lo sviluppo si è trasformato in un’arma per la lotta politica. C’era, purtroppo, da aspettarselo in un contesto politico-istituzionale come quello italiano, dove la polarizzazione è massima (almeno a parole) e l’attribuzione delle responsabilità tra istituzioni diverse è a dir poco opaca. Di chi è la colpa? Conte o Draghi, Draghi o Meloni, campo largo o centrodestra, Stato o regioni? Ci azzuffiamo sui colpevoli e non aggrediamo mai i nodi strutturali che rendono il nostro Paese e la sua spesa pubblica quello che sono.

In punta di diritto, la Corte ha le sue ragioni: a Titolo V immutato, il potere ispettivo appare sovradimensionato, anche perché gli enti territoriali potrebbero rispondere che a quel punto il governo centrale potrebbe farsi soggetto attuatore al posto loro, con tutti gli oneri (non solo onori) che ne derivano. Ma la discussione in punta di diritto ci porta poco lontano, anche perché sarebbe bastato che Palazzo Chigi avesse scritto i decreti con qualche accortezza in più, scrivendo “potere di verifica” anziché ispettivo, per aggirare il problema. Il secondo spunto di riflessione legato a questa vicenda è più generale.

Invece di buttare tutto nel tritacarne delle baruffe quotidiane, perché non usiamo il Pnrr – questo enorme programma di spesa finanziato dalle future generazioni europee e italiane – come scusa per ridiscutere in maniera seria i rapporti tra Stato e regioni?
Il centrosinistra accusa il governo di attentare all’unità nazionale con l’autonomia differenziata, ma poi lo critica anche quando cerca di dare una cornice “centrale” agli interventi del Pnrr, senza contare che a sinistra nessuno ha mai fatto autocritica né sulla riforma del Titolo V (fatta male nel 2001) né sull’affossamento della riforma che nel 2016 aveva provato a correggerla (a cui ha contribuito attivamente chi oggi dirige il campo largo). Il centrodestra, dal canto suo, disegna una riforma ideologica e pasticciata come l’autonomia differenziata, ma poi attua forzature centralistiche come quelle sul Pnrr.

Dove sta la coerenza di questi posizionamenti?
Che il Pnrr abbia imbarcato un bel po’ di spesa a pioggia non è un mistero. Con l’effetto che fa riempire di acqua un assetato che si è tenuto forzatamente senza bere per giorni. Che nel suo disegno iniziale si sia data priorità alla velocità delle spese, piuttosto che alla visione degli interventi, non è pure un mistero. La domanda che tutti si ponevano allora era: come faremo a spendere tutti questi soldi entro il 2026? Pochi si chiedevano: che Paese avremo nel 2027? Quali filiere produttive ne usciranno più competitive? Quali problemi sociali mitigati? Quali istituzioni rafforzate? La spesa a pioggia, tra l’altro, ha l’effetto di accentuare le disparità territoriali, perché produce effetti positivi solo laddove la qualità delle istituzioni e della classe politica è alta. In altri territori può addirittura peggiorare i meccanismi di selezione della classe politica, bloccando il ricambio e favorendo il clientelismo. È quel fenomeno che nelle scienze sociali è stato chiamato “maledizione politica delle risorse”.

Su questi temi un po’ di sano centralismo servirebbe (e sarebbe servito). Sui diritti della persona come salute, lavoro e formazione permanente, pure. Su altri temi, gli enti territoriali possono fare la loro parte senza che il governo (o la Corte di cui sopra) metta i bastoni tra le ruote. Ma di questo dovremmo discutere. AAA cercasi riformisti che hanno a cuore il ridisegno dei principi di sussidiarietà istituzionale tra il livello europeo, nazionale e territoriale, in maniera non ideologica e sganciata dalle baruffe quotidiane.

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