Il Riformista

Presidenzialismo: giù la maschera

Tommaso Nannicini
Democrazia/#presidenzialismo

Le opposizioni hanno due modi per reagire alle “consultazioni” che la presidente Meloni ha avviato in tema di riforme
istituzionali. Il primo è quello di gridare al rischio di deriva plebiscitaria e al fascismo alle porte, se la destra non ammainerà la bandiera del presidenzialismo. Il secondo è quello di andarne a vedere il bluff, dicendosi pronte a discutere di un assetto istituzionale equilibrato, che possa prevedere anche l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del capo del governo, a patto che ci siano alcuni paletti fondamentali per la qualità della democrazia. Ci sono due motivi per cui la seconda reazione sarebbe più utile della prima.

Il primo motivo ha a che fare con la credibilità. Le elettrici e gli elettori sono più svegli di quanto pensi qualcuno. Vedono che la personalizzazione della politica è ovunque: non solo in tv, ma anche in forze politiche che hanno smarrito qualsiasi meccanismo di discussione collettiva e di selezione dei propri dirigenti intorno a una missione comune (due ingredienti che bene o male avevano tutti i partiti di massa nella Prima Repubblica). Non capiscono perché provare a “istituzionalizzare” una certa attitudine alla personalizzazione, ponendole contrappesi precisi in Costituzione, dovrebbe essere peggio dell’attuale deriva da rotocalco. Non solo. Quelle stesse elettrici e quegli stessi elettori si ricordano che il semipresidenzialismo alla francese è stato rilanciato a più riprese dall’Ulivo e dal centrosinistra. Dire che il presidenzialismo è sempre – e in quanto tale – una deriva plebiscitaria, indipendentemente da come lo si cucina, significherebbe che Prodi, D’Alema, Veltroni & Co. non si erano fatti obnubilare solo dal liberismo, ma anche dal peronismo. Un po’ ingeneroso oltre che poco credibile.

E così veniamo al secondo motivo per cui sarebbe meglio evitare gli arroccamenti identitari: per smascherare l’eventuale bluff della destra. Ci sono molti indizi, a partire dai comportamenti spesso inaccettabili della seconda e della terza carica dello Stato, per cui viene da pensare che la destra italiana stia scivolando verso una visione orbaniana della democrazia, una sorta di autocrazia temperata e paternalista. Ma gli indizi non fanno una prova. Per questo sarebbe utile andare a vedere il loro bluff in tema di riforme istituzionali. Se l’attuale maggioranza rifiutasse i paletti in grado di inserire il presidenzialismo dentro un assetto equilibrato, getterebbe la maschera.

Ma quali sono gli elementi che potrebbero giustificare un “grande compromesso” tra le forze politiche in materia di riforme istituzionali, rendendo al contempo più forte la democrazia italiana? All’elezione diretta del capo dello Stato proposta dalla destra, in un contesto semipresidenziale, si dovrebbero contrapporre quattro paletti precisi.

Primo paletto: il superamento del bicameralismo paritario e una legge elettorale uninominale a doppio turno per la selezione dei parlamentari. Il monocameralismo renderebbe più forte il Parlamento. Il doppio turno, come dimostrano studi scientifici, ridurrebbe la polarizzazione e lo stallo decisionale (con ogni maggioranza che pianta la sua bandierina e quella dopo che la cancella). E migliorerebbe la selezione dei parlamentari, rendendo più importante la qualità dei candidati per l’esito finale in ogni singolo collegio (anche qui l’evidenza scientifica avvalora questa conclusione). Non solo. Il doppio turno favorirebbe la stabilizzazione del sistema partitico e ridurrebbe i rischi di derive da mancata alternanza, riducendo lo svantaggio competitivo che il centrosinistra ha per le sue perduranti divisioni. Certo, questo non è nell’interesse della destra, ma proprio così si misura la volontà di riscrivere le regole del gioco nell’interesse dell’Italia e non di una parte politica.

Secondo paletto: uno Statuto dell’opposizione di rango costituzionale. Per esempio, prevedendo precisi istituti regolamentari che consentano alle forze di opposizione di ottenere relazioni tecniche della Ragioneria generale dello Stato sulle proprie proposte, e di decidere una porzione rilevante dell’ordine del giorno dell’assemblea parlamentare, incluse le dirette televisive. Terzo paletto: strumenti di partecipazione digitale anch’essi di rango costituzionale. Per esempio, prevedendo che le petizioni online, raggiunto un certo numero di firme, obblighino il Parlamento a discutere le proposte dei cittadini ed esprimere precise mozioni di indirizzo. Quarto paletto: una riforma del Titolo V che riporti alcuni diritti fondamentali tra le prerogative esclusive dello Stato. Non è pensabile che il diritto alla salute, al lavoro e alla formazione varino da regione a regione. Questo sarebbe anche uno stop chiaro ad alcune forme di autonomia differenziata che rischiano di rendere l’Italia ancora più diseguale.

Insomma, piuttosto che limitarsi a dire no al presidenzialismo, si rilanci sulle proposte che lo renderebbero equilibrato: stabilizzazione del sistema partitico; rafforzamento del ruolo del Parlamento e delle opposizioni; nuovi strumenti di partecipazione e diritti più forti per i cittadini. Se fossero queste le proposte portate dal centrosinistra al confronto con la maggioranza, si capirebbe chi ha una visione solida della democrazia e chi no. Chi è veramente disponibile a riscrivere insieme le regole del gioco e chi no. Perché, oggi come ieri, non basta dire no.

L’immagine usata è tratta dall’edizione cartacea de Il Riformista 9/5/2023

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