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«Rafforzare le riforme per far crescere l’Italia»

Vincenzo Caciulli
Democrazia/#riforme

Quarantatre anni, ordinario di economia presso l’Università Bocconi, prima consulente poi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del governo Renzi  con la responsabilità di importanti dossier economici, del lavoro e delle  pensioni, oggi responsabile dell’elaborazione del programma con il quale il Pd si presenterà alle prossime elezioni politiche. Tommaso Nannicini ha preferito non entrare nel nuovo esecutivo Gentiloni per dedicarsi alle idee e contribuire a rivitalizzare il Partito Democratico almeno quale luogo di elaborazione e selezione di classe dirigente. Ricercato dai media è stato incalzato soprattutto sull’esperienza appena terminata del governo Renzi, su alcuni dei provvedimenti assunti e sui motivi della sconfitta referendaria. Qual è, a tuo giudizio, la situazione economico-sociale italiana? Come la descriveresti?

«Siamo usciti da un lungo periodo di recessione. Negli anni del governo Renzi, l’Italia è passata al segno “meno” al segno “più”. Il problema, però, è che il numero che affianca quel segno “più” è ancora troppo basso: la nostra è una ripresa fragile e lenta, specie se paragonata a quella degli altri Paesi europei. Abbiamo vissuto una crisi molto grave, che ha distrutto capacità produttiva e un milione di posti di lavoro, solo parzialmente (700 mila) recuperati con il Jobs act. Ma dobbiamo evitare la scorciatoia mentale della crisi internazionale, nata fuori da qui, che ci ha colpito e al termine della quale torneremo magicamente a crescere. Il vero pericolo per la nostra economia è di tornare a ciò che c’era prima: a vent’anni di stagnazione degli investimenti e della produttività. Perché i malanni italiani precedono la crisi e il nostro compito è capire da dove nascono per curarli».

E come possono essere curati?

«L’unico modo è compiere un aggiustamento strutturale. Lo sforzo di cambiamento che oggi ci si presenta davanti è spesso accompagnato da paroloni altisonanti come automazione, robotizzazione e globalizzazione, ma in realtà il cambiamento è un fenomeno che l’economia ha sempre conosciuto. Queste paure non sono nuove: già nel 1930 Keynes diceva che la nuova malattia dei sistemi economici di cui presto tutti avremmo sentito parlare sarebbe stata la “disoccupazione tecnologica”. Keynes ne ha azzeccate tante ma non questa. Speriamo continui a non azzeccarla, ma dipende da noi. Faccio un esempio legato al  mio territorio toscano d’origine il Valdarno: il nostro era un distretto famoso per i cappellifici, ma a un certo punto la gente ha smesso di portare i cappelli. Ce ne siamo fatti una ragione: non abbiamo chiesto allo Stato una legge che obbligasse tutti i dipendenti pubblici a portare i cappelli, per sostenere, drogandola, la domanda. Ci siamo rimboccati le maniche, facendo sistema: gli imprenditori hanno cercato strade nuove, le istituzioni locali hanno accompagnato questo processo con politiche passive e attive, sindacati e parti sociali hanno gestito la transizione. Ora dobbiamo fare lo stesso. Non è facile, perché abbiamo di fronte tante sfide: la globalizzazione ha dato vita a un nuovo contesto competitivo e il progresso tecnologico viaggia sempre più veloce. Di conseguenza anche la politica dev’essere più veloce nel fare la sua parte».

Di quali riforme abbiamo bisogno?

«Nei mille giorni del governo Renzi, ci siamo affidati a un mix di interventi. Da una parte, riforme strutturali che gettassero a mare una volta per tutte le zavorre che pesano sul Paese: nel welfare, nel fisco, nel mercato del lavoro, nella giustizia e, qui procedendo troppo lentamente, nella Pa. Abbiamo avviato un percorso di riforme di cui per vent’anni abbiamo parlato nei nostri convegni senza fare niente, anche se il centrosinistra ha governato per otto anni del cosiddetto ventennio berlusconiano. Dall’altra parte, abbiamo attivato alcune leve congiunturali per dare ossigeno subito a famiglie e imprese, consapevoli che lo sforzo delle riforme, nel breve, comporta dei costi i cui benefici si vedono solo nel medio periodo. I cosiddetti bonus erano proprio questo: non, come li hanno dipinti alcune caricature giornalistiche, mance elettorali ma leve congiunturali che accompagnassero una ripresa ancora debole all’interno di uno sforzo di riforme che impone fisiologicamente costi di aggiustamento».

Hai parlato di automazione e robotizzazione. Come si riesce a limitare l’impatto di questi fenomeni sull’occupazione senza tarpare le ali a chi vuole innovare?

«La letteratura economica tende a leggere i cambiamenti del mercato del lavoro come una corsa continua tra progresso tecnologico (visto come processo di creazione distruttrice) da una parte e formazione e istruzione (che permettono alla forza lavoro di cambiare e adeguarsi) dall’altra. Più il progresso tecnologico corre veloce, più le risposte di policy su formazione e istruzione devono essere rapide e concrete. Una formazione che convenga a chi si forma e non a chi forma, che segua il lavoratore lungo tutto il ciclo di vita. Non solo e non più per prendere un pezzo di carta che serva a trovare un posto fisso. Facile a dirsi, certo, più difficile a realizzarsi. Ma è questa la sfida. Il nuovo articolo 18 è la formazione continua».

Ti sembra un obiettivo raggiungibile?

«Se guardo ad altri Paesi, sì. Gli ultimi vent’anni, nonostante siano stati segnati da un’ondata di progresso tecnologico a dir poco esuberante, hanno visto gli occupati aumentare in tutti i Paesi sviluppati. Se prendiamo gli stati membri dell’Ue, tutti hanno ormai livelli occupazionali maggiori di quelli pre-crisi. Fanno eccezione solo Italia, Portogallo, Spagna e Grecia, che non a caso sono quelli che hanno puntato meno sull’adeguamento delle competenze e sul rafforzamento dei lavoratori nel mercato con politiche attive degne di questo nome».

In un’intervista hai affermato che il Pd sarà pronto al voto con un progetto forte per il futuro e che immagino prenderà le mosse dall’analisi che hai appena svolto. Quali saranno le linee guida fondanti il progetto, quali le ipotesi di riforma e in quali ambiti? 

«Occorre continuare nel solco del mix tra riforme strutturali – alcune già avviate, altre ancora da fare – e leve congiunturali, sfuggendo alla tentazione della tabula rasa, del reset. Tentazione tipica della politica italiana, per cui quello che conta non sono i risultati delle scelte, ma le bandierine ideologiche e gli annunci. Per cui chi arriva dopo si preoccupa solo di togliere le bandierine di chi c’era prima e piantare le proprie, indipendentemente dai risultati ottenuti o attesi. Serve invece un ciclo riformista che vada avanti – per citare Goethe – “senza fretta ma senza sosta”. Dobbiamo richiedere un mandato per continuare nel solco delle riforme già avviate, alcune delle quali stanno iniziando a produrre frutti, non per azzerarle. Siamo consapevoli che si sia trattato solo di un primo passo, ma nella giusta direzione. Adesso serve il secondo, ancora più incisivo».

In concreto, che cosa hai in mente?

«Ti faccio tre esempi: lavoro, povertà e fisco. Sul primo, dopo il Jobs act, ora è tempo di mettere in campo politiche attive e della formazione degne di questo nome. Sul fronte della lotta alla povertà, eravamo gli unici insieme alla Grecia a non avere un reddito minimo di ultima istanza e abbiamo stanziato 1,8 miliardi a regime per questo, creando il reddito d’inclusione. Non basta: dobbiamo raddoppiare le risorse per arrivare a tutti e creare una rete di servizi che punti all’attivazione di chi è in condizione di disagio. Perché per noi il reddito minimo è uno strumento di attivazione, non una mancetta assistenziale. Però, essere passati dallo zero che c’era prima a 1,8 miliardi strutturali, creando uno strumento unitario di contrasto alla povertà, è stato un passo fondamentale e nella giusta direzione. Infine, il fisco: abbiamo ridotto la pressione fiscale su imprese e famiglie, ma ora serve una riforma strutturale dell’Irpef, per un fisco sempre più equo ma anche più semplice. Non solo tasse più basse, quindi, ma anche regole certe, basate sulla fisiologia e non sulla patologia. Le norme devono aiutare i contribuenti onesti: l’evasione si combatte con strumenti moderni – agenzie fiscali funzionanti, incrocio di banche dati – non con norme barocche che un ufficio accertamenti di qualche agenzia interpreta in maniera discrezionale perché pensa così di incastrare gli evasori “brutti e cattivi”».

Una sostanziale continuità con l’esperienza di governo precedente, quindi? Non avete commesso nessun errore in quei mille giorni?

«Errori ne abbiamo commessi, certo. Chi non fa – magari per limitarsi a fare il maestrino in qualche convegno – non falla. Ma al nuovo corso del Pd serve dare continuità alla spinta riformista, non fare tabula rasa. Se vuoi, un cambio di passo su alcuni temi c’è e si percepisce nella mozione congressuale Renzi-Martina: per sanare le fratture storiche – generazionale, territoriale, sociale e di genere – che ci portiamo dietro da decenni, in un primo momento abbiamo pensato che bastasse la crescita, ora invece queste fratture sono al centro del nostro programma con leve di policy specifiche. In fondo potrebbero trasformarsi nelle nostre opportunità: sanandole subito, riusciremo a creare crescita nel breve, senza aspettare gli effetti benefici delle riforme strutturali. Nei documenti programmatici usciti dai tavoli di discussione del Lingotto si parla appunto di leve selettive per riattivare l’occupazione giovanile e femminile e per favorire la ripresa degli investimenti al Sud».

Nei tuoi interventi citi spesso la formula “Meriti e bisogni”, facendo espressamente riferimento alla conferenza programmatica di Rimini del Psi del 1982 e alla relazione svolta allora da Claudio Martelli. Il senso che Martelli dava allora era quello di puntare a un’alleanza tra i portatori di bisogni reali e i portatori di talento e merito. A questi secondi – schiacciati all’epoca da un egualitarismo soffocante e sganciato da ogni valutazione – dovevano essere liberate le potenzialità per affermarsi e far crescere il contesto italiano tutto. I primi dovevano essere garantiti da un welfare reale superando quello assistenziale e clientelare creato dalla Dc con il sostanziale appoggio del Pci. Oggi come si declina quella formula?

«Non è la nostalgia da socialista italiano (ancora prima che europeo) che mi porta a citare quella formula, ma la convinzione che l’alleanza tra merito e bisogno possa essere la leva giusta per compiere quell’aggiustamento strutturale di cui parlavo prima. Noi abbiamo bisogno da una parte che chi può correre lo faccia, continuando a disegnare mondi nuovi e a creare innovazione, e dall’altra che chi resta indietro abbia una seconda chance, che chi è nato indietro sia spinto avanti. Secondo Nenni era questo l’obiettivo del socialismo: “portare avanti tutti quelli che sono nati indietro”. Ma non dobbiamo giustapporre le politiche per il merito e per il bisogno bensì far percepire l’unione, l’alleanza tra le due istanze».

Cioè?

«Se si vuole favorire il rischio bisogna dare una rete di protezione: un acrobata disegna acrobazie spericolate solo se sa che sotto c’è una rete di protezione, che se cade l’unica cosa che deve fare è rialzarsi e riprovare. Ecco perché le politiche per il bisogno non devono essere un vicolo cieco, una protezione passiva, ma vanno inserite in un orizzonte di merito e di attivazione sociale. La base per costruire tutto ciò è un patto di cittadinanza attiva: ci sono diritti e ci sono doveri. Liberiamo da lacci e laccioli chi innova e crea profitti, ma chiediamogli di non portare i soldi in qualche paradiso fiscale, perché servono per creare una rete per lui, se gli va male, e per chiunque rimanga indietro. Così come a chi è rimasto indietro diamo una mano a ripartire, ma lo spingiamo a rimettersi in gioco, non ad adagiarsi su un sussidio. Responsabilità e mobilità sono le chiavi: l’alleanza tra merito e bisogno si cementa se c’è mobilità, se c’è turnover tra i due mondi. Se ad andare avanti o a rimanere indietro sono sempre gli stessi, è impossibile chiedere uno sforzo di responsabilizzazione. Certo, invitare alla mobilità e alla responsabilità in un Paese statico come il nostro, in cui le pulsioni alla de-responsabilizzazione sono sempre all’ordine del giorno, è impresa ardua. È la fatica della democrazia e, se vuoi, la fatica del cambiamento. Ma è proprio da queste fatiche che nasce la bellezza della politica e del riformismo».

 

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