«Questo referendum della Cgil non abolisce il Jobs Act, ma uno degli otto decreti di quella riforma. Si tratta del decreto che faceva riferimento al contratto a tutele crescenti. Un contratto che non esiste più, perché è stato già rimaneggiato e modificato dalla Consulta. Quindi parliamo di propaganda, di piantare una bandierina. Di conquistare uno scalpo ideologico che potrebbe addirittura produrre effetti paradossali, perché se passasse il referendum l’indennizzo massimo per i licenziamenti passerebbe da 36 a 24 mesi. Dodici mesi in meno di tetto: è questo che si vuole?».
Tommaso Nannicini è considerato uno dei padri del Jobs Act. Sottosegretario alla presidenza del consiglio con Matteo Renzi, è docente di Economia Politica alla Bocconi, e ha insegnato anche ad Harvard e all’università Carolos III di Madrid.
Nannicini, la Cgil dice che il Jobs Act aumenta la precarietà.Lei ha scritto quella riforma: è vero ?
«In realtà quella del Jobs Act era una riforma che tentava di contrastare il fenomeno della precarizzazione del lavoro. Questo perché aveva un impianto diverso dalle riforme precedenti, la Treu e la Biagi, che si ispiravano alla cosiddetta “flessibilità a margine”, cioè puntavano tutto sui contratti flessibili. Al contrario il Jobs Act tentò di contrastare le dimissioni in bianco, abolì i cocopro, e contrastò le false partite Iva. Proprio sfruttando il Jobs Act, i rider di Torino hanno ottenuto le tutele del lavoro subordinato».
Ma i contratti a tempo indeterminato sono aumentati o calati, con il Jobs Act?
«In Italia negli ultimi anni abbiamo visto un aumento dei contratti a tempo indeterminato. Ma stabilire un rapporto diretto tra questo e il Jobs Act è comunque azzardato. Il Jobs Act era una riforma corposa, fatta di otto decreti. Alcuni non sono stati mai attuati, perché mancavano i fondi, e perché poi il governo cadde. Altri sono stati modificati. Come quello sul contratto a tutele crescenti che è ora oggetto del referendum
della Cgil».
Cosa vuole abolire esattamente la Cgil? E perché sarebbe sbagliato?
«Il tema è il contratto a tutele crescenti. Il sistema del Jobs Act era questo: più tempo lavoravi per una azienda e più grande era l’indennizzo da parte dell’azienda in caso di licenziamento. Questo contratto già ora non esiste più, perché la Corte Costituzionale ha deciso con una sentenza che il tempo passato in azienda non può essere l’unico criterio per definire l’indennizzo. La Corte ha deciso così di lasciare al giudice la discrezionalità sull’ammontare dell’indennizzo, fino a un livello massimo di 36 mesi. Ora, se si abolisse il riferimento normativo al Jobs Act attraverso il referendum della Cgil, l’indennizzo massimo passerebbe da 36 a 24 mesi, come stabiliva la riforma Fornero. Non
proprio un affarone».
La segretaria Pd Elly Schlein firmerà il referendum Cgil contro il Jobs Act. È deluso?
«Sì, ma la politica ha le sue dinamiche e non fatico ad ammettere che anche noi commettemmo un errore ai tempi del Jobs Act. A un certo punto la nostra priorità, come governo, era venderla all’estero: convincere la Ue che avevamo fatto una buona riforma, e che meritavamo la flessibilità dei conti. Questo ci ha portato a sottovalutare lo scontro interno coi sindacati, e questo ha prodotto delle ferite, fino alla voglia di “vendetta” di oggi».
Voglia di vendetta anche nel Pd?
«Dividersi sui simboli del passato è il tipico gioco del Pd. Oggi tutte le forze di opposizione sono d’accordo sui temi del lavoro: su salario minimo, sicurezza sul lavoro, formazione permanente, congedi paritari. Questo provoca una vertigine di stupore, e anche la voglia di dividersi sui simboli del passato, per distinguersi. Tutto è fatto in funzione delle Europee: se andranno male, sul tema della firma al referendum sul Jobs Act si farà il prossimo congresso del Pd contro Schlein. Se invece le Europee andranno bene, il Jobs Act tornerà a essere il male assoluto. Ormai, si tratta di una bandierina sganciata dai contenuti. Purtroppo».