Il Riformista

Ricominciamo per mettere nero su bianco una riforma istituzionale

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Non c’è bisogno di aspettare altri dettagli per capire che la proposta di riforma Meloni-Casellati nasce pasticciata. L’errore è alla fonte: si mischiano elementi di modelli istituzionali diversi senza valutarne la portata, solo per piantare bandierine che accontentino questa o quello. Una riforma pensata per una maggioranza, non per un Paese. Detto questo, anche alcune obiezioni delle opposizioni sono pasticciate. Bertrand Russel, nella sua Storia della filosofia, scriveva che l’unica cosa che gli faceva rivalutare Platone erano le critiche di Aristotele. Una battuta che torna in mente leggendo i giornali di questi giorni. Prendiamo la difesa del ruolo del Presidente della Repubblica.

Nella Seconda Repubblica, quel ruolo si è allargato in maniera abnorme per colpa di alcune patologie, l’obiettivo di una riforma dovrebbe essere proprio quello di rimuovere quelle patologie e restringere quel ruolo. Difenderne lo strabordamento sa molto di elitismo, oltre che di partigianeria: c’è da scommettere che alcuni cambierebbero subito idea di fronte a un Presidente di destra. Oppure prendiamo gli strali contro la deriva plebiscitaria e la difesa del Parlamento. Fanno sorridere da parte di classi dirigenti che si nutrono del culto del capo (partito o corrente) e hanno svilito negli anni il ruolo del Parlamento a colpa di decreti, emendamenti segnalati, relazioni tecniche e parlamentari nominati senza arte né parte. Il Parlamento non si difende indebolendo le altre istituzioni, ma rafforzandolo. Facciamo un passo indietro, allora. Ricominciamo. Quale riforma ci serve? Per capirlo, partiamo da due tesi che puntualmente fanno capolino quando si parla di riforme istituzionali. Due tesi tanto diffuse quanto superficiali. Magari non è colpa loro se ogni volta le riforme falliscono, ma visti gli esiti del passato, dalla commissione Bozzi al governo Renzi, tanto vale provare a ridimensionarle. La prima tesi è che con le istituzioni non si mangia: bisogna pensare all’economia e al lavoro.

È difficile pensare a un’affermazione più stridente con la scienza economica. Se c’è una cosa che abbiamo imparato dalle maggiori ricerche scientifiche degli ultimi decenni, capitanate anche da economisti italiani come Alberto Alesina e Guido Tabellini, è che la qualità delle istituzioni è una delle determinanti fondamentali della prosperità di un Paese. È la politica, bellezza. E noi italiani dovremmo saperlo meglio degli altri, visto che la nostra crescita si è inceppata proprio quando il sistema politico-istituzionale è franato negli anni ’90 senza mai trovare un nuovo equilibrio. Se vogliamo tornare a crescere e creare lavoro, dobbiamo migliorare le nostre istituzioni. Punto. La seconda tesi, sciorinata come un mantra da più parti, è che l’obiettivo principale delle riforme dovrebbe essere quello di far durare i governi più a lungo.

Ma la durata non è una garanzia di qualità o di effettività nel governare. L’obiettivo dovrebbe essere un altro, di cui la durata, casomai, non è che un semplice corollario: quello di ridare forza alla politica. Ridare forza alla politica significa due cose: ridarle autorevolezza (migliorando la qualità di chi ci rappresenta) e ridarle autorità (fornendo strumenti efficaci per fare il proprio lavoro sia a chi governa sia a chi controlla). È normale che questo obiettivo non piaccia a tutti. Molti politici non vogliono una politica autorevole, perché loro faticherebbero a farne parte. E molti interessi costituiti non ne vogliono sapere di una politica capace di cambiare lo status quo. Eppure di questo abbiamo bisogno. Vediamo, allora, alcuni ingredienti di una riforma istituzionale che potrebbe abbracciare un obiettivo del genere. Primo: il superamento del bicameralismo paritario e il doppio turno per la selezione dei parlamentari. Il monocameralismo renderebbe più forte il Parlamento.

Il doppio turno avrebbe il merito di (1) ridurre la polarizzazione, (2) migliorare la selezione dei parlamentari, rendendo più importante la qualità dei candidati per l’esito finale in ogni singolo collegio, e (3) stabilizzare il sistema partitico, riducendo il rischio di derive da mancata alternanza. Secondo: uno Statuto dell’opposizione di rango costituzionale, per esempio consentendo alle forze d’opposizione di ottenere relazioni tecniche dalla Ragioneria generale dello Stato e decidere una porzione rilevante dell’ordine del giorno in assemblea. Terzo: strumenti di partecipazione digitale, anch’essi di rango costituzionale. Quarto: una riforma del Titolo V che riporti alcuni diritti fondamentali – salute, lavoro e formazione – tra le prerogative dello Stato sul piano legislativo, ferma restando la possibilità di autonomia differenziata su altre materie. Quinto: l’elezione diretta del capo dello Stato o del governo, per dare stabilità agli altri ingredienti e per istituzionalizzare una tendenza alla personalizzazione della politica che altrimenti rischia di scadere nel rotocalco. Certo, questo “grande compromesso” scontenterebbe un po’ tutti i partiti. Ma a tutti darebbe qualcosa. Chi non lo vuole perlomeno ci risparmi l’ipocrisia di dire che le regole del gioco vanno riscritte tutti insieme. Perché per farlo – indovina un po’ – ognuno deve rinunciare a qualcosa.

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