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Ridateci la politica: perché ci mancano ideologie e partiti

Riccardo Maggiolo
Democrazia

Professor Nannicini, negli ultimi giorni a sinistra c’è stata una vivace discussione sul neoliberismo: ma se c’è una cosa su cui oggi tutti sembrano d’accordo è che lo Stato deve intervenire attivamente e pesantemente nell’economia.

Ci sono questi grandi pendoli della Storia. Albert Hirschman parlava di pendolo tra virtù pubbliche e virtù private, per dirla con Gramsci potremmo parlare di oscillazioni tra egemonie culturali di stampo diverso, per esempio liberale o socialdemocratica. Negli anni ‘60 e ’70 i governi di destra quando andavano al potere investivano in scuole, ospedali, creavano aziende pubbliche, facevano cose “di sinistra”, insomma. E questo perché l’egemonia culturale era socialdemocratica. Dalla fine degli anni ’70 invece, con l’hackeraggio da parte della classe media dello stato sociale, la crisi fiscale dello Stato e la stagflazione, il pendolo è passato nel campo liberale. E allora la sinistra quando andava al potere faceva cose “di destra”: privatizzava, adottava una visione monetarista, metteva il welfare in cura dimagrante. Ora il pendolo si sta spostando di nuovo.

Quindi si tratta di grandi movimenti politici e culturali transnazionali.

Esatto. Noi stiamo riducendo questi grandi movimenti di cultura politica in beghe di bottega. Basta guardare il Pd. Giorni se non settimane passate a discutere se il cedimento liberale del partito sia stata un’invenzione di Matteo Renzi, quando semmai lui era alla fine di un ciclo decennale che incarnava quella tendenza. Facendo un paragone forse un po’ ardito, Renzi è stato il Gorbaciov di quel cedimento e ha provato ad addolcirlo in alcune parti, mentre Bersani e D’Alema sono stati i Breznev: erano del tutto immersi in quella fase. E infatti hanno portato avanti privatizzazioni alla Boris, tagliato lo stato sociale, introdotto una flessibilità al margine senza nuovo welfare.

Sembra che non si riesca a interpretare la politica se non attraverso schemi rigidi, semplicisti e oramai sorpassati.

Sì, e lo si vede bene nel Partito democratico, al cui interno c’è questa continua battaglia tra l’ala liberal e quella radical. Ma non è un confronto vero: sono tutte e due posizioni caricaturali, che producono una polemica sterile, legata a parole d’ordine oziose e sorpassate. E purtroppo tutto questo impedisce la costruzione di quello di cui avremmo grande bisogno: un nuovo paradigma per il centrosinistra del XXI secolo, un nuovo contratto sociale per lo sviluppo, che in questo Paese manca oramai da quasi vent’anni. E se manca è soprattutto per colpa di noi riformisti.

Troppi governi di emergenza o tecnici, figli o prodotti di offerte politiche frammentate e indecise?

C’è stata e c’è molta timidezza. Il fatto è che si è oramai installata questa idea che quando stai al governo devi anzitutto preservare la stabilità. Ed è vero che ci sono forti vincoli internazionali, ma non te lo prescrive il dottore di fare solo aggiustamenti al margine. Il punto è che manca una politica con vero coraggio e visione, perché queste possono venire solo dalle idee. Idee radicali, che interpretano un sentire comune, un momento storico, e di cui la politica e poi il governo si fanno ultimi portatori. Ideologie, insomma.

Pare che il cambiamento possa avvenire solo attraverso traumi.

È vero. Guardiamo anche all’Unione europea. Con la pandemia finalmente si è riusciti a riformare in profondità certe istituzioni che non riuscivano a dare risposte ai cittadini. Penso in particolare al programma NextGenerationEU. Grazie a esso forse avremo presto un bilancio europeo, da affiancare a una burocrazia e a una moneta europea. Si tratta di un cambiamento rilevante, ma manca ancora quello più importante: la politica. Mancano ancora partiti europei, sindacati europei. E senza questi corpi intermedi la politica vera non riesce ad arrivare nei palazzi, e ne esce squalificata.

Si è forse creduto che la politica potesse essere disintermediata: che ci potesse essere un dialogo fruttuoso direttamente tra governo e cittadinanza?

Credo di sì. Ma penso che sia oramai evidente che l’approccio top-down, in cui il governo va al potere sulla spinta di una richiesta di soluzione dei problemi ma che decide in autonomia come e dove intervenire, con i cittadini ridotti a spettatori, non può funzionare. Le masse politiche del ‘900 sono diventate sciami digitali, dove la partecipazione è massima ma anche estemporanea; viscerale ma sterile; evanescente ma anche manipolabile. La mancanza di corpi intermedi, che è stata interpretata da alcuni come una liberazione, pensiamo alle campagne contro i partiti ai tempi di Tangentopoli o alla visione contro i sindacati dei 5 Stelle, ha tolto peso e gravitazione alla rappresentanza.

La politica è diventata prêt-à-porter: standardizzata e insieme centrata sull’individuo.

Di nuovo: gli anni ’90 sono il crinale decisivo. Allora in reazione alle degenerazioni della partitocrazia, abbiamo buttato via i corpi intermedi e le ideologie, che incanalavano e davano spinta propulsiva a idee di cambiamento, a una consapevolezza popolare, a un sentire comune. Dobbiamo darci delle forme per interpretare la voglia del cambiamento. Che c’è. Per questo abbiamo bisogno di un ritorno alle ideologie e ai partiti. In forma nuova, s’intende.

Dire oggi che bisogna tornare alle ideologie e ai partiti però non è esattamente un argomento utile a raccogliere voti.

Certo, e forse qui sta il problema. Siamo in una fase di transizione; di cambio di paradigma. Le élite internazionali sono più consapevoli del grande cambiamento che sta avvenendo, e cercano di mettere le toppe al modello esistente promuovendo una maggiore redistribuzione. Mentre invece le classi medie occidentali, rimanendo nel recinto nazionale, fanno più fatica a rendersene conto e, travolti da un mondo complesso e imprevedibile, sono più attratte da istanze conservatrici e risposte preconfezionate. Rimangono ancorate a un modello di disintermediazione che sembra “nuovo” ma ha oramai trent’anni, e ha fatto il suo tempo.

Come si potrebbe invece interpretare questo cambio di paradigma?

Io tengo in particolare a due proposte: il reddito di formazione e il tempo di base. Il primo è un percorso personalizzato di formazione e accompagnamento al lavoro, su base volontaria, accompagnato da una forte garanzia del reddito per chi accetta di mettersi in gioco seguendo quel percorso. Il secondo è un sussidio per chi non è in grado di prendersi del tempo per progetti personali, per la formazione, per attività di cura. Dobbiamo usare la maggiore produttività dell’economia non solo per redistribuire ricchezza, ma anche e soprattutto tempo. In questo modo si rovescia l’approccio classico ai servizi sociali: non più condizionali e calati dall’alto ma davvero partecipati e quindi generativi. Il rischio legato all’efficacia deve infatti essere sullo Stato, non sul beneficiario.

Bisogna ripensare il lavoro, insomma.

Il lavoro è cambiato. In passato è stato sfruttamento ma anche emancipazione. Oggi la seconda componente sembra essere venuta meno, e tutto il dibattito sul lavoro ruota attorno allo sfruttamento. Che, intendiamoci, è un problema grave e anche più presente di quanto se ne occupi la politica. Ma il fatto è che mettendo lo sfruttamento al centro il lavoro diventa respingente; viene visto come fondamentalmente un sopruso. Invece, è il modo con cui una persona persegue i suoi progetti e si costruisce un ruolo nella comunità. Dobbiamo tornare a dargli quella dimensione: liberarlo.

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