Il Sole 24 ore

Riforma spagnola, il grande equivoco

Tommaso Nannicini
Lavoro/#riforme

In Italia si fa un gran parlare della riforma spagnola del mercato del lavoro attuata dal governo Sanchez (Real Decreto-ley 32/2021). Il problema è che, come avviene spesso da noi, se ne parla con un mix di ideologismo e spensierata superficialità. Per alcuni, quella legge è il simbolo di una riforma agli antipodi del nostro Jobs act e in grado di sconfiggere la precarietà.

Prima di capire se è davvero così, vediamo gli ingredienti della riforma. Sul lavoro temporaneo, la Spagna ha fatto una stretta in due mosse: 1) abolizione di una tipologia contrattuale molto usata e alquanto precaria (obra o servicio); 2) aumento del costo dei contratti a tempo determinato rispetto a quelli stabili. Sul lavoro permanente, invece, ha fatto tre mosse: 1) mantenimento delle riforme del 2010 e del 2012, con cui i governi Zapatero e Rajoy avevano reso più flessibili i contratti stabili; 2) allargamento delle possibilità d’utilizzo di un contratto che formalmente è classificato come tempo indeterminato ma è una sorta di lavoro intermittente (fijo discontinuo); 3) introduzione di un nuovo contratto anch’esso formalmente a tempo indeterminato ma con costi di licenziamento molto bassi (fijo de la construcción). A questi elementi di ingegneria contrattuale se ne aggiunge uno politico: il fatto che la riforma è stata “concertata” con sindacati e associazioni datoriali. In verità, il piano iniziale della ministra Yolanda Diaz puntava solo a far salire i costi di separazione del lavoro permanente, superando le riforme bipartisan del 2010-12. Ma per la pressione congiunta del resto del governo e delle parti sociali, la riforma ha preso un’altra piega.

Torniamo, allora, alle affermazioni iniziali. Questa filosofia d’intervento è radicalmente diversa da quella del Jobs act? Quali sono stati gli effetti della riforma? Ha davvero sconfitto il precariato? La prima risposta è semplice: la filosofia è la stessa del Jobs act, per cui si rende più flessibile il tempo indeterminato mentre si restringe il lavoro temporaneo, abolendo alcuni contratti atipici come i co.co.pro. e aumentando i costi contributivi del tempo determinato. Si può discutere sull’efficacia degli strumenti (generali per i neoassunti nel caso italiano o limitati a certe fattispecie nel caso spagnolo) ma la filosofia è la stessa. Ed è diversa dalla cosiddetta “flessibilità al margine” che ha ispirato gran parte degli interventi degli ultimi decenni nei paesi Ocse, inclusa l’Italia con le riforme Treu e Biagi. Giusto per chiamare le cose col loro nome.

Arriviamo così alla seconda domanda: in Spagna questo approccio ha funzionato? Sì e no. Se si guarda alle statistiche aggregate, sì: i contratti a tempo indeterminato sono passati dal 62% al 71% del totale; i contratti a tempo determinato sono scesi dal 27% al 13%. Numeri enormi. Ma se si guarda a cosa c’è dietro, la realtà è più complessa: il lavoro intermittente (che è formalmente a tempo indeterminato ma di fatto precario) è quasi triplicato, passando dal 2,4% al 6,5%; dietro all’aumento dell’indeterminato c’è anche il contratto fijo de la construcción, che di nuovo da noi verrebbe visto come precario; e – cosa ancora più importante – il turnover nel lavoro permanente è aumentato, perché a fronte dei nuovi stock i flussi sono rimasti identici. Questo ci conferma che l’ingegneria contrattuale non fa miracoli e il mercato del lavoro spagnolo resta fragile e bisognoso di altri interventi. Formazione permanente, lotta al sommerso, welfare che copra sia i dipendenti sia gli autonomi, politiche di condivisione a favore del lavoro femminile, politiche industriali a sostegno della produttività: le misure che mancano non sono così diverse tra Spagna e Italia.

Insomma: prima di “fare come in Spagna”, come ripetono alcuni a mo’ di cantilena, sarebbe utile capire che cosa hanno fatto lì. Cominciando a copiarne il metodo, quello di una riforma discussa con le parti sociali, onde evitare sbandamenti e improvvisazioni.