Il Riformista

Riformisti Pd, Nannicini: “Appiattirsi sulla linea di Landini non ha niente di radicale, è un posizionamento tatticistico”

Aldo Torchiaro
Lavoro/#jobsact#Referendum

Tommaso Nannicini, già sottosegretario alla Presidenza del consiglio nel governo Renzi, senatore del Pd dal 2018 al 2022, è professore ordinario di economia all’Istituto Universitario Europeo. Cosa pensa dei quesiti sul lavoro di Landini?
«È una battaglia ideologica, lontana dai problemi di chi lavora. Dall’approvazione del Jobs act a oggi, l’occupazione a tempo indeterminato è cresciuta, anche grazie a quelle norme, e la quota di licenziamenti, al contrario, è diminuita. Altro che precariato! Il Jobs act ha introdotto la Naspi (il nuovo sussidio di disoccupazione che arriva fino a due anni), abolito i cocopro e messo una norma per combattere le finte partite Iva, che i rider hanno usato a Torino per vedersi riconosciuti in tribunale i diritti dei lavoratori subordinati. In Italia, il problema non sono i licenziamenti alti ma i salari bassi. Anche perché una parte del sindacato è sempre più in piazza e sempre meno nei luoghi di lavoro».

Facciamo fantapolitica, come esercizio teorico: cosa succederebbe se vincessero i Sì, sul lavoro?
«Se si abolisce il decreto sul contratto a tutele crescenti, peraltro già modificato dalla Corte costituzionale, non si torna al mitico articolo 18, ma alla riforma Monti-Fornero, allora contrastata dalla Cgil. Col paradosso che l’indennizzo massimo nei casi di licenziamento ingiustificato scenderà da 36 a 24 mesi. E addirittura la possibilità di reintegro sul posto di lavoro sarà tolta in alcune situazioni, come – guarda caso – per chi lavora nel sindacato. Insomma, una battaglia ideologica sulle spalle di chi lavora».

La decisione di non prendere parte al voto per i tre quesiti, da parte dei riformisti dem, è uno spartiacque? Tra chi vota sì e chi non li vota sembra alzarsi un muro…
«Io penso che al voto si debba partecipare anche per non indebolire il quesito sulla cittadinanza, ma di sicuro non voterò sì a tre dei quattro quesiti sul lavoro. Mi sarebbe piaciuto vedere un confronto nella direzione del Pd. Servirebbe una discussione vera, una dialettica trasparente per approfondire i temi. Non vedo sforzo di sintesi, che poi è il compito più alto della politica».

C’è un po’ di allergia ai punti di vista diversi, nel Pd di Elly Schlein?
«Non penso che avere una identità chiara passi per il mettere sotto al tappeto, o costringere ai margini, chi ha opinioni dissenzienti. C’è una tendenza figlia di una semplificazione estrema. Ci sono due anime: comanda una, e quella che non comanda si spacca tra chi esce e chi sta dentro turandosi il naso. Poi la ruota gira, chi era uscito rientra e gli altri si dividono tra chi minaccia di uscire e chi si tura il naso. Un ciclo non virtuoso».

Questo Pd che dice di volersi riappropriare di una identità più radicale fatica sempre di più a tenere dentro anche l’anima riformista?
«In una passata stagione ero stato tra i sostenitori di quello che definivamo “riformismo radicale”. Oggi faccio fatica a vedere la radicalità del Pd: appiattirsi sulla linea di Landini non ha niente di radicale, è un posizionamento tatticistico».

Lei vede un progetto di trasformazione della società e del mercato, nel Pd di Schlein?
«No, vedo una giustapposizione di temi e di suggestioni, alcuni un po’ passatisti e altri condivisibili, come la battaglia sui congedi paritari. Singole battaglie, non proprio un progetto di trasformazione della società. Vedo un accovacciarsi sotto slogan del passato, aspettando che il centrodestra di Meloni si schianti, politicamente, da solo».

Da economista che giudizio darebbe delle politiche fiscali e per il lavoro di Giorgia Meloni?
«Galleggia, rischiando il meno possibile. E galleggiano anche all’opposizione, aspettando placidamente di potersi avvicendare».

Ma una opposizione invaghita di Landini è la miglior garanzia di lunga vita per il centrodestra.
«Non mi è chiaro al momento se prevarrà la fatica di un governo che non fa scelte o di una opposizione divisa su tutto. Servirebbe la convocazione di un tavolo programmatico serio, aperto, partecipato con tutto il centrosinistra, senza veti, esclusioni e veleni. Per guardarsi in faccia oltre gli slogan, ma soprattutto per guardare al futuro».

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