Uscire dalla pandemia, chiudere una stagione politica

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Tutti parlano di unità istituzionale e di collaborazione leale tra maggioranza e opposizione. La chiede il Presidente della Repubblica. La chiedono gli editorialisti. La offrono tutte le forze politiche, reclamando sedi istituzionali straordinarie dove possa materializzarsi: cabine di regia, commissioni speciali in Parlamento, o simili. Bene. Ma è difficile sfuggire alla sensazione che tutti, maggioranza e opposizione, invochino questa benedetta collaborazione solo per scaricare la colpa della sua assenza sugli altri, giocando col cerino finché non si brucia la mano di qualcuno, sperando che non sia la propria.

Da che cosa nasce questa sensazione? Dal fatto che mentre tutti invochiamo una maggiore unità, continuiamo a ripetere che la colpa di qualsiasi problema è dell’altra parte politica e continuiamo a giocare con le nostre proposte “bandierina”, piuttosto che dialogare sul da farsi. La minoranza presenta le sue proposte, a volte superficiali, a volte irrealizzabili, dicendo che l’unica collaborazione possibile è che la maggioranza le faccia proprie. Il governo presenta i suoi decreti dicendo che non si può fare di meglio e che l’unica collaborazione possibile è che il Parlamento, minoranza inclusa, li approvi in fretta. Per la serie: mangia questa minestra o salta dalla finestra.

L’altro giorno ero in tv ed è partito un servizio sui drammi della sanità piemontese. Una collega della Lega è partita lancia in resta dicendo che era tutta colpa di Conte. Non mi hanno ridato la parola, ma se l’avessero fatto avrei detto — secondo me con qualche ragione — che era tutta colpa del governatore del Piemonte Cirio. Intendiamoci: io credo sinceramente che in Piemonte e in Lombardia i governi regionali della Lega abbiano gravi responsabilità. Così come credo che sarebbe stato un dramma se avessimo affrontato la pandemia con Salvini al governo. Ma adesso non è questo il punto cruciale (ne riparleremo alle elezioni). Posso essere molto più utile, come politico, se mi concentro sugli errori della mia parte politica, perché quelli posso sperare di cambiarli nel mezzo della situazione drammatica che stiamo vivendo. Di questo, secondo me, abbiamo bisogno: non di politici che scaricano le colpe sugli avversari o sciorinano le virtù salvifiche delle proprie proposte, ma di politici che ammettono cosa non ha funzionato, se ne assumono la responsabilità e indicano i necessari correttivi in modo trasparente. Nessuno ha la bacchetta magica, ma non può essere una scusa per insistere nell’usare bacchette che non funzionano.

Qualche esempio?
Primo: la seconda fase della pandemia è diversa dalla prima, non solo perché il nostro tessuto sociale è più sfibrato, ma perché era prevedibile che arrivasse e le risposte dovevano necessariamente essere diverse (ne avevo discusso anche qui nel mese di aprile). È comprensibile la scelta del governo di procedere con restrizioni diversificate per aree e non a colpi di lockdown generalizzati, ma 21 indicatori sono troppi, i loro pesi non sono chiari, alcuni non sono legati al contagio e si basano su dati non aggiornati. Così non funziona. Dobbiamo “anticipare” l’andamento dei contagi con pochi indicatori chiari e aggiornati in tempo reale. L’unica cosa che accomuna la prima e la seconda fase è che non c’è nessun derby tra salute ed economia: tenere sotto controllo la curva dei contagi è l’unico modo per non infliggere un colpo mortale al nostro tessuto economico.

Secondo: non possiamo dire che chiudiamo le scuole perché sennò le persone si muovono e i trasporti non funzionano, dobbiamo far funzionare i trasporti (in sicurezza). Di nuovo, nessuno ha bacchette magiche, ma si è perso tempo. Si sapeva che dovevamo compensare le aziende di trasporto per utilizzare il parco mezzi alla capacità massima anche in presenza di corse meno convenienti, espandere il parco mezzi disponibile attingendo a società private, reclutare controllori, acquistare strumenti per la rilevazione automatica delle presenze, studiare meccanismi di prenotazione digitale nelle rotte a bassa domanda. Abbiamo fatto mille task force per produrre documenti compilativi su proposte generali di cui parliamo da trent’anni, per far finta di star facendo qualcosa sui giornali. Servivano, invece, task force diverse: con obiettivi chiari dati dalla politica, tempi certi e processi trasparenti. Sui trasporti, per esempio, una task force con esperti, aziende e sindacati avrebbe dovuto individuare le soluzioni aggiornandoci ogni giorno sui passi in avanti.

Terzo: correndo appresso alle emergenze abbiamo perso la sfida della visione. È giusto compensare le imprese a cui chiediamo di fermarsi (anche se andrebbe fatto con una logica di filiera e non con obsoleti codici Ateco), dare la cassa integrazione a chi un lavoro ce l’ha e non deve perderlo solo per uno shock temporaneo, limitare i licenziamenti laddove lo Stato mette soldi per tenere in vita attività economiche. Ma questi interventi emergenziali finiranno e nel frattempo ci siamo comunque persi per strada più di mezzo milione di occupati, soprattutto giovani, donne, lavoratori precari e partite Iva. Per loro abbiamo fatto troppo poco. E continuiamo a fare troppo poco per anticipare il cambiamento economico che ci aspetta e non lasciare nessuno da solo nella fatica di questo cambiamento. Servono riforme dal lungo respiro sul welfare universalistico e sulle politiche del lavoro e della formazione. Vogliamo aspettare la fase tre per accorgerci che abbiamo perso tempo senza fare niente? Cambiamo passo, mettiamoci una visione del dopo.

Lo so: per un politico, come per Fonzie, è tremendamente difficile dire “ho sbagliato”. Ma senza questo gesto, tanto difficile quanto rivoluzionario, non si costruisce né fiducia reciproca né unità istituzionale. Tanto varrebbe, a quel punto, smettere di invocarla.