«Abbiamo a cuore l’Europa. E se alziamo i toni è per svegliarla dal torpore». Sebbene sia molto più pacato nei modi rispetto a Matteo Renzi, di cui è fidato consigliere, Tommaso Nannicini non è meno netto nei contenuti.
Reduce da un dibattito sull’Eurozona con Guido Tabellini, Francesco Giavazzi e Irene Tinagli, battesimo della neonata associazione Europa XXI secolo da lui stesso fondata, Nannicini è venuto a farci visita in redazione a Linkiesta. Si è parlato delle polemiche tra Renzi e l’Unione Europea e del “ritorno a Maastricht”, ovviamente, ma anche di giovani – «dobbiamo agire sui redditi con sgravi fiscali, non solo sull’occupazione» – e di lavoro, con l’idea, nemmeno troppo malcelata, di togliere alle Regioni il boccino sulle politiche attive, nonostante la sconfitta referendaria. E non sono mancate le stilettate al presidente francese Emmanuel Macron che dovrebbe «firmare per fare quel che ha fatto Renzi» e per il ministro Carlo Calenda, che lunedì scorso si era scagliato contro la politica delle mance – «ma se lo sono gli ottanta euro, allora lo sono pure gli iperammortamenti del piano Industria 4.0», rintuzza Nannicini.
Partiamo dall’Europa: se alzate i toni, finite per assomigliare ai populisti, dicono…
«Non sono d’accordo. Noi siamo l’unico partito fortemente europeista, con proposte chiare sull’architettura istituzionale e sulle politiche comuni. Gli altri balbettano. Le cose bisogna dirsele a viso aperto, senza ipocrisia. E la fiducia si guadagna con una trattativa vera. Noi non siamo degli scolaretti indisciplinati: negli ultimi tre anni abbiamo dimezzato le procedure d’infrazione e fatto un percorso di riforme importante di cui siamo orgogliosi, che è servito e servirà per far crescere l’Italia e per stabilizzare la situazione complessiva dell’Europa. E la flessibilità che abbiamo ottenuto, è tutta nel contesto delle regole, non in deroga ad esse. Le rispettiamo, ma dobbiamo dire con forza che non funzionano».
Ecco: cos’è che non funziona, nelle regole europee? Perché, per dirla con le parole di Renzi, bisogna tornare a Maastricht?
«Perché le regole europee sono diventate barocche. Che non è vero non lascino margini di flessibilità, sia chiaro, ma la lasciano nelle pieghe della burocrazia. Noi invece dobbiamo ritrovare flessibilità politica, esplicita, per recuperare spazio per fare politiche di crescita. Che non vuol dire, si badi bene, tornare all’Italietta che è capace di crescere solamente aumentando la spesa pubblica e il disavanzo».
Oddio, è Renzi che dice di voler aumentare il deficit fino al 2,9% del Pil per i prossimi cinque anni…
«È sbagliato porla in questi termini. Renzi ha detto che per cinque anni potremmo arrivare ad avere un deficit pari sino al 2,9% del Pil. È diverso».
Dove, scusi?
«Gli spazi di bilancio che saranno usati dipenderanno dall’andamento dell’economia. Nessuno pensa di fare politiche pro-cicliche. Ma vogliamo ridurre le tasse di trenta miliardi l’anno. Coprendoli col recupero di base imponibile, la lotta all’evasione, i tagli alla spesa ma anche aumentando il deficit se servirà e l’economia stenterà ancora un po’ a ripartire di slancio».
Obiezione: ma non erano le riforme a far crescere il Pil?
«Certo. È chiaro che gli effetti di queste riforme non sono immediati e ci mettono un po’ a concretizzarsi. Nel frattempo, abbiamo bisogno di usare la leva congiunturale di politiche fiscali espansive per facilitare la ripresa. E il taglio delle tasse è una riforma strutturale».
Se continuate a prendervela con l’Europa, però, non c’è il rischio che finiate per legittimare le idee dei Cinque Stelle e della Lega Nord. Che poi la gente finisce per preferire l’originale, non la copia.
«Io sono contento se la gente preferisca l’originale, perché l’originale siamo noi. II Pd è l’unico partito davvero europeista che c’è in Italia con proposte chiare sull’architettura istituzionale e sulle politiche comuni. E abbiamo i titoli, più di altri, di rivendicare le nostre idee di Europa. Gli altri sull’Europa balbettano, soffiano semplicemente sul fuoco delle insoddisfazioni e le danno la colpa di tutti i guai. Ma non hanno alcuna soluzione, solo molta improvvisazione. Se l’Europa vuole essere all’altezza dei suoi fondatori deve cambiare profondamente».
Macron? Quello che ha pronunciato il suo primo discorso da Presidente accompagnato dall’Inno alla Gioia?
«Si può ironizzare su chi ha più bandiere a dodici stelle alle spalle, ma quando parla dell’Europa che ha in mente – l’Europa che protegge, la chiama – non difende certo l’Europa degli zero virgola».
Concretamente, allora: qual è la vostra grande riforma per l’Europa?
«È una proposta che prende spunto dalle idee di Sergio Fabbrini. Primo punto: serve uno sdoppiamento tra l’area di libero scambio e l’area in cui si può fare cooperazione rafforzata, che mutualizza e rafforza alcuni strumenti di politiche comuni».
È l’Europa a due velocità. L’Unione Europea da una parte l’Eurozona dall’altra…
«Quella è la cosa più logica, ma vediamo chi ci sta. Nella cooperazione rafforzata e nello sdoppiamento dell’Europa possono starci benissimo Paesi che non hanno la moneta. Non è che per fare la difesa comune devi per forza avere l’Euro. Certo, l’unione fiscale servirebbe per l’Eurozona in coordinamento con la politica monetaria».
Secondo punto?
«Si possono fare grandi cose anche a trattati immutati. Sicurezza e difesa sono due tra queste, ad esempio. Così come le politiche sociali: a novembre ci sarà un importante vertice sulle politiche sociali europee. Mi auguro che il governo italiano, in quell’occasione, faccia sentire la sua voce».
Sicurezza e difesa sono importanti cessioni di sovranità nazionale, così come le politiche fiscali. Come vede l’idea di dar vita a una politica fiscale comune?
«L’Unione fiscale è un ulteriore cessione di sovranità. Vuol dire rafforzare il meccanismo europeo di stabilità, per rafforzare la gestione del rischio di nuove crisi sistemiche nell’Eurozona e gestire la domanda aggregata a livello europeo. Vuol dire anche creare uno strumento che emetta titoli europei – il professor Guido Tabellini li chiama stability bond, altri li chiamano eurobond – gestita da un istituto fiscale europeo. E qui arriva il difficile».
Cioè?
«Per fare gli stability bond devi cedere per forza un pezzo delle tue entrate fiscali all’istituto fiscale europeo. E serve un ministro delle finanze europee che gestisca quei soldi, che decida come distribuirli, che metta il becco sui bilanci nazionali. Questo qualcuno – con tutto il rispetto – non può essere un burocrate con le tavole della legge in mano. Dev’essere un soggetto con piena legittimità politica».
E come si fa a dargliela, questa legittimità politica?
«Questo è un bel tema. Credo che l’unica possibilità sia l’elezione diretta del presidente della Commissione Europea, con potere di nomina sulle figure chiave».
Oggi però le istituzioni comunitarie sono in crisi e il metodo intergovernativo la fa da padrone…
«Io sono convinto che il metodo intergovernativo morirà di inefficacia, debolezza e miopia. Le mediazioni al ribasso e la frustrazioni che genera sono l’opposto di quel che serve».
A proposito di quel che serve, voi siete convinti che sia necessario tagliare le tasse. Il ministro dello sviluppo Calenda invece dice che semmai ci fosse spazio per spendere, bisognerebbe fare investimenti pubblici. Dice che bisognerebbe evitare le mance…
«Sul fatto che si debba evitare di distribuire mancette sono d’accordo con Calenda».
Non l’ha letto come un attacco al Governo Renzi, quindi? Agli ottanta euro, ad esempio.
«Non credo Calenda si riferisse alle politiche del governo di cui faceva parte. Peraltro: se è una mancia i trasferimenti alle famiglie per gli ottanta euro, sono una mancia pure i soldi alle imprese per comprare i macchinari. Politiche che condivido in entrambi i casi, intendiamoci. Ma mettiamoci d’accordo sulle parole».
In ogni caso, Calenda dice investimenti, voi dite giù le tasse.
«Noi gli investimenti li abbiamo già fatti e altri ne faremo. Ma prima dobbiamo dare a famiglie e imprese la percezione netta che la pressione fiscale è scesa in maniera stabile e duratura. Peraltro, il taglio di tasse che Renzi ha annunciato nel suo libro non piove dal cielo, ma è l’ultima tappa di un cronoprogramma annunciato già nel 2015. Che ha visto già realizzarsi gli 80 euro per le famiglie, la decontribuzione, ancorché temporanea, per i nuovi assunti, il taglio di Ires e Irap per le imprese, il taglio delle imposte sulla prima casa».
Voi promettete un taglio delle imposte di 30 miliardi di euro. Emmanuel Macron ha vinto le elezioni promettendo 60 miliardi di spending review. Possibile che da noi la revisione della spesa non si riesca proprio a fare?
«Noi in tre anni di governo abbiamo cominciato a ridisegnare il perimetro dello Stato, ma non sono processi che producono risparmi nel breve periodo. I risultati si vedranno nei prossimi quattro, cinque anni. Poi certo: per rendere strutturale il taglio delle tasse che immaginiamo di fare nei prossimi cinque anni, accelereremo il percorso di riduzione della spesa pubblica. Il problema è un altro, semmai».
Quale?
«Evitare di scaricare i risparmi sulle giovani generazioni, così come è stato fatto con le riforme pensionistiche degli anni passati».
Voi ve li siete un po’ persi per strada, i giovani…
«Io non sono d’accordo con questa lettura. Non sono d’accordo con il fatto che noi abbiamo fatto poco per i giovani. Gli 80 euro sono per chi ha reddito inferiore a 24mila euro, e chi ha un reddito inferiore a 24mila euro – ahinoi – sono soprattutto i giovani. Ancora: abbiamo messo 2,2 miliardi sull’allargamento dei sussidi alla disoccupazione, e i disoccupati sono in prevalenza giovani. Abbiamo 1,8 miliardi di reddito d’inclusione, che è andato alle famiglie povere con minori a carico, ed è difficile che un settantenne abbia minori a carico. Stiamo sommando miliardi e miliardi che fanno impallidire quei nove miliardi in dieci anni per la flessibilità pensionistica di cui tutti parlano».
Beh, però al referendum hanno votato No in massa…
«Il No ha vinto tra chi è in difficoltà. E la maggioranza di chi è in difficoltà, perché senza lavoro o perché ha un reddito basso, sono proprio i giovani. Abbiamo fatto molto per loro, ma non abbiamo fatto abbastanza per farli uscire dalle difficoltà, certo. Beninteso, non è un alibi, ma un aggravante».
Davvero non dovete pentirvi di nulla?
«Questo no. Abbiamo sbagliato a pensare che non servissero politiche mirate specificatamente ai giovani, che la crescita economica fosse ciò che a loro serviva per far partire il loro progetto di vita. Dobbiamo introdurre azioni mirate per i giovani, molto più di quanto abbiamo fatto».
Qualche esempio?
«Più che la disoccupazione giovanile – che è al livello di metà anni ’80, quando la barca andava e il nostro Pil aveva superato quello del Regno Unito – mi preoccupano i redditi molto bassi. Le politiche retributive italiane sono troppo legate all’età e a modelli di contrattazione e welfare che sono morti nel secolo scorso».
Quindi?
«Dobbiamo rafforzare i redditi d’ingresso, quindi, e fare politiche fiscali che avvantaggino i giovani, attraverso deduzioni e sgravi fiscali – come la deducibilità dell’affitto, ad esempio – che li avvantaggino in attesa che arrivi la contrattazione. E poi politiche di formazione adeguate, che mirino a diminuire il mismatch tra domanda e offerta di lavoro».
Quel che ha fatto Macron, mettendoci quindici miliardi di euro.
«Quel che Macron dice di voler fare. Io credo che Macron dovrebbe firmare l’idea di poter realizzare percentuali del suo programma analoghe a quelle che ha realizzato Matteo Renzi, in tre anni. Nonostante abbia una maggioranza enorme a disposizione».
Facciamo finta che li mette, quindici miliardi. Voi?
«La mia ossessione sulle politiche della formazione è aumentare la qualità, non la quantità. Non mi interessa sparare numeri, bensì valutare le politiche e gli operatori in funzione della domanda, degli sbocchi, delle opportunità concrete. Detto questo, mi piace l’idea della dote formativa individuale, in parte a carico dello Stato, in parte a carico delle imprese. Se ci fosse una dote formativa individuale alla francese e un monitoraggio nazionale sarei contento anche senza i 15 miliardi».
A proposito di lavoro, giovani e formazione: come sta l’Agenzia Nazionale delle Politche Attive? C’è chi dice che senza il Jobs act sia una riforma a metà…
«L’Anpal sta carburando. Ha bisogno di risorse e capitale politico. Dev’essere rafforzata nel suo ruolo. Nessuno vieta, nonostante il referendum sia andato com’è andato, che non ci debba essere una regia nazionale per le politiche attive, anche se la competenza legislativa è ripartita con le Regioni».
Le Regioni faranno le barricate…
«Secondo me il Governo dovrebbe fare un patto molto chiaro con le Regioni: se entro la presentazione della legge di bilancio ci fosse un decreto concordato da tutti che riconoscesse i livelli essenziali di prestazioni sul territorio, e il ruolo chiave Anpal, si potrebbero usare soldi dello Stato e trasferirli alle Regioni, affinché si occupino di politiche attive. Se invece le regioni non accettano, siccome la funzione legislativa è loro ma quella amministrativa può stare ovunque, mi prenderei tranquillamente i dipendenti dei centri per l’impiego e farei una rete nazionale unica».
A proposito, che ne pensa del rapporto presentato dal Movimento Cinque Stelle sul lavoro del futuro?
«Mi risulta che quella ricerca sia costata 50mila euro e mi pare non ci fosse niente che non si potesse desumere dalla letteratura esistente in materia di lavoro, frutto di lavori di ricerca altrettanto validi. Diciamo che noi del Partito Democratico abbiamo fatto spending review».
A bruciapelo: bisogna tassare i robot?
«Non scherziamo. Anche perché sarebbe schizofrenico farlo dopo aver concesso iperammortamenti a chi compra i robot. Ci vorrebbe un iperammortamento pure per le spese di formazione, semmai».
[Hanno collaborato alla realizzazione dell’intervista Lidia Baratta e Fabrizio Patti]
Vai al contenuto