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“Cgil a corto di idee. Il referendum sul Jobs Act non ha senso”

Raffaele Marmo
Lavoro/#cgil#jobs act

Maurizio Landini è pronto a lanciare un referendum sulle leggi cosiddette precarizzanti, a cominciare dal Jobs Act, se governo e Parlamento non intervengono. Tommaso Nannicini, oggi professore di Economia alla Bocconi in procinto di passare all’Istituto universitario di Firenze, ma soprattutto “padre” e regista del Jobs Act come sottosegretario del Pd a Palazzo Chigi con Matteo Renzi, non ci sta.

Che cosa non la convince del j’accuse del leader della Cgil e della possibile via referendaria?

Quando il sindacato non ha un’agenda, agita i referendum. La precarietà dei giovani, i bassi stipendi e i tagli allo stato sociale sono problemi seri, troppo seri per affrontarli con la demagogia. Che cosa vuol dire abolire il Jobs Act? Abolire la norma che ha permesso ai rider di Torino di ottenere le tutele del lavoro subordinato? Abolire la norma che aumentava la Naspi ed estendeva la cassa integrazione alle piccole imprese? Reintrodurre i cocopro? Abolire il sistema nazionale delle politiche attive? Più che abolirle, queste cose andrebbero fatte meglio.

Magari Landini pensa al contratto a tutele crescenti che ha sterilizzato l’articolo 18.

A superare quella norma ci ha già pensato la Corte costituzionale. Ora abolire quel decreto, come ha proposto anche qualcuno in Parlamento, avrebbe solo l’effetto perverso di ridurre i risarcimenti per chi viene licenziato. Un’assurdità. E poi non è certo da lì che passa la lotta al precariato. Insomma, con tutta la buona volontà, è difficile capire di cosa si parli. Sembra solo una sparata per nascondere un vuoto di idee e un deficit di rappresentanza.

Anche la nuova leadership del Pd considera il Jobs Act il male assoluto o quasi. Che cosa pensa dell’abbandono del riformismo nel lavoro da parte del Pd?

Non è questione di riformismo, ma di opportunismo. Per alcuni è facile criticare gli errori dell’era Renzi, molto più difficile ammettere quelli dell’era Zingaretti-Letta. Io non ho problemi ad ammettere che sul Jobs Act è stato un errore l’eccesso di enfasi sull’articolo 18. Quell’errore ha nascosto le parti buone della riforma. E ha rotto il dialogo col sindacato, che ancorché dialettico non deve mai venir meno a sinistra. Abbiamo sbagliato. Mi piacerebbe però che qualcuno ammettesse anche gli errori successivi.

Quali?

Per esempio il sì al taglio dei parlamentari piegandosi all’egemonia grillina. E il governismo fine a sé stesso, che ha prodotto posti di governo per i dirigenti del Pd ma poche risposte per le persone. Dopo aver spianato la strada alla Meloni, sembra che alcuni dirigenti del centrosinistra vogliano far di tutto per farla restare a Palazzo Chigi.

Uno dei modelli del nuovo asse Pd-M5s-Cgil è il modello spagnolo. È davvero così più tutelante del Jobs Act?

Questa è una delle tante fake news del dibattito italiano. La Spagna ha aumentato sia la flessibilità del tempo indeterminato sia i costi del lavoro temporaneo. È esattamente la stessa filosofia del Jobs Act, che si discosta da quella delle riforme precedenti, compresa l’Italia con Treu e Biagi, che puntavano a rendere più flessibile il lavoro temporaneo. Dopodiché, il mercato del lavoro spagnolo resta fragile come il nostro. Sia noi che loro, avremmo bisogno di un Reddito di formazione: una forte garanzia del reddito per chi accetta di inserirsi in un percorso capillare, ben finanziato e ben valutato, di formazione permanente. Ecco una battaglia per rafforzare lo stato sociale che mi piacerebbe vedere da parte del centrosinistra e del sindacato.

Il nodo retribuzioni basse esiste: qual è il suo giustizio sul salario minimo? Che altro si può fare per far salire gli stipendi?

Certo, la questione salariale è fondamentale. Il salario minimo sta nel programma del Pd dal 2018 ed è una misura utile. Ma va fatto bene. Fissandolo in modo da rafforzare anziché scardinare la contrattazione collettiva. E facendo capire che quello è uno strumento per il lavoro povero, mentre per far salire i salari di tutti gli altri servono altri strumenti. Altrimenti torniamo all’idea dei salari come variabile indipendente, delegittimiamo il sindacato e assistiamo alla sfilata di politici che ogni giorno vanno a Porta a Porta per promettere di alzare le retribuzioni. Per aggredire la questione salariale, ci serve il Reddito di formazione, politiche industriali che coniughino tecnologia e lavoro, sindacati più forti nei luoghi di lavoro, con una legge seria sulla rappresentanza e forme di partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici. Sulla partecipazione condivido la proposta della Cisl e sto per firmarla.

Ma dove si trovano i soldi per rilanciare lo sviluppo? Le risorse mancano come dice Giorgetti o ci sono come ribatte Landini?

Le risorse ci sono se smettiamo di usarle male. Il governo Draghi ha buttato via più di 30 miliardi in un fondo complementare al Pnrr, che conteneva solo premi di consolazione per i progettini dei ministeri che non erano rientrati nel piano principale, nel silenzio assordante delle forze di maggioranza, di opposizione e delle parti sociali. Se quei soldi fossero finiti in un fondo per le riforme, ora sapremmo come riformare fisco e welfare. Ma è più facile dividersi sul niente che fare battaglie concrete per spendere bene le poche risorse che ci sono.

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