Rivista Eco

Dal populismo al post-populismo: che Europa sarà?

Tommaso Nannicini
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Se l’Europa è la Silicon Valley del populismo, l’Italia è la sua Cupertino (o Palo Alto, a seconda dei gusti). Sotto forma a volte di unicorni, a volte di startup, da Grillo a Vannacci, ne abbiamo provate un po’ tutte le varianti. Il populismo è definito come un’ideologia “leggera”, basata sulla contrapposizione manichea tra la purezza del popolo e la corruzione delle élite, tanto che per sopravvivere deve “attaccarsi” ad altre ideologie o narrazioni più pesanti: nazionalismo, postfascismo, liberismo, assistenzialismo, leadership carismatiche. Non c’è bisogno di fare nomi per capire che in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Anche in termini di personaggi: magnati che si sono fatti da soli, personalità televisive, leader che hanno scalato partiti ai margini della politica tradizionale, tecnocrati chiamati a salvare la patria. Lo stesso vale per gli strumenti: televisione, social media, interferenze straniere, organizzazione del dissenso tra gli sconfitti del cambiamento economico. In altri paesi, il populismo ha mischiato con successo alcuni di questi ingredienti. Noi li abbiamo assaggiati tutti, spesso allo stato puro. È per questo che l’Italia è un laboratorio unico per studiare le cause e le traiettorie del populismo.

Le cause del populismo

Il populismo non è certo appannaggio dell’Europa, né oggi né tantomeno nel corso della storia. La prima volta che si usa il termine è in Russia alla fine dell’Ottocento, poi negli Stati Uniti a inizio del Novecento. Ma il termine diventa famoso grazie all’America Latina degli anni ’60 e ’70. È solo nei primi decenni del Duemila che l’Europa diventa la Silicon Valley del populismo, ancorché in maniera non esclusiva: si pensi a Trump e Bolsonaro. Perché l’Europa? E perché l’Italia? La risposta è politica. E investe sia la crisi della sovranità degli stati nazionali, sia quella dei partiti come organizzazioni di massa. Maastricht e Tangentopoli.
Gli studi empirici sul populismo litigano tra loro per decidere se le sue cause siano economiche (la perdita di status di fronte alla globalizzazione) o culturali (la perdita di senso di fronte alla secolarizzazione). Sono meno numerosi quelli che ne sottolineano le cause politiche: l’incapacità della politica occidentale di riscrivere il contratto sociale dopo il 1989. La fine della guerra fredda e lo sgretolamento di quei corpi intermedi che aiutavano il consenso dei partiti tradizionali (i sindacati sotto i colpi della globalizzazione e le parrocchie sotto quelli della secolarizzazione) hanno aumentato la volatilità delle scelte di voto e l’instabilità dei sistemi partitici. Il voto di protesta è diventato meno costoso. Le crisi multiple che hanno colpito l’Europa negli ultimi decenni – da quella migratoria a quella economica – hanno fatto il resto, creando spazio per nuovi “imprenditori politici”, per dirla con il titolo di un libro di Catherine De Vries e Sara Hobolt, che hanno sfruttato l’ideologia populista, attaccandola il più delle volte alla xenofobia, al nazionalismo di estrema destra e all’antieuropeismo, e qualche volta anche a piattaforme di sinistra anti austerità e assistenzialiste (Syriza, Podemos, in qualche modo i 5 Stelle in Italia).

L’ascesa del populismo in Europa

L’Europa era il posto perfetto per far crescere il brodo di cultura populista. La sua mancanza di legittimazione politico-elettorale ai vertici della catena di governo, l’assenza di corpi intermedi e di una discussione pubblica compiutamente europea, la sofisticata costruzione di trattati e agenzie transnazionali, per costruzione frutto di contrattazioni tra élite: tutti questi elementi hanno finito per alienare vasti strati dell’elettorato che subivano sulla propria pelle i costi del cambiamento economico.
Per carità, l’incapacità degli stati nazionali di risolvere i nuovi problemi globali non riguarda solo l’Europa, ma qui ha trovato un facile capro espiatorio: la burocrazia di Bruxelles e le sue leggi lontane dalla vita delle persone. È paradossale che il più grande sforzo di costruzione di una sovranità transnazionale sia finito sotto accusa. Ma in politica sei giudicato per i risultati che porti a casa oggi, non per quelli del passato (pace e prosperità nel continente) o per gli sforzi che fai per produrne di nuovi. Se non risolvi i miei problemi, sei tu il mio problema.
L’Italia ci ha messo sopra il carico da novanta, distruggendo i partiti tradizionali senza ricostruire un assetto politico-istituzionale capace di dare stabilità, legittimità ed efficacia al gioco elettorale. Insieme all’acqua sporca di Tangentopoli, abbiamo buttato via il bambino costituito da organizzazioni politiche di massa cementate da una missione collettiva. L’antipolitica ha così raggiunto livelli stratosferici. In uno studio empirico, Arnstein Aassve, Gianmarco Daniele e Marco Le Moglie rivelano che chi è stato socializzato alla politica negli anni di Tangentopoli, ancora oggi, ha una minore fiducia nella politica ed è più incline a votare per partiti populisti.

Le elezioni europee alle porte

Che cosa dobbiamo aspettarci dalle elezioni europee del giugno 2024? Simon Hix, docente di scienza politica all’Istituto Universitario Europeo, sta producendo da mesi studi e proiezioni sugli andamenti elettorali e sui loro possibili impatti sugli equilibri politici a Bruxelles. La Figura 1 rielabora i suoi dati per sintetizzare gli andamenti del voto populista negli ultimi cinque anni in alcuni paesi. Dietro alle variazioni nelle quantità, c’è un cambiamento nella qualità: il populismo europeo non si sta solo consolidando, ma si sta spostando a destra. Sgonfiatesi le esperienze più importanti di populismo di sinistra (Syriza in Grecia e Podemos in Spagna) o “amorfo” (i Cinque Stelle in Italia), in gran parte cresciute in reazione agli eccessi dell’austerità macroeconomica, adesso i casi di successo sono tutti sull’estrema destra. A giugno, c’è da aspettarsi un rafforzamento elettorale dei partiti populisti, soprattutto di quelli alla destra del Partito popolare europeo, sempre tenuti fuori dalle grandi coalizioni che hanno finora governato l’Unione Europea.

Elaborazioni su dati da: Simon Hix e Abdul Noury, “The 2024 European Parliament Elections: Potential Outcome and Consequences”, Sieps, Aprile 2024.

 

Queste tendenze avranno ripercussioni non solo sulla scelta di chi presiederà la Commissione, ma anche sulle decisioni legislative, dato che a Bruxelles le coalizioni politiche si fanno e si disfanno sui singoli dossier. C’è da aspettarsi che le scelte in tema di transizione ecologica, diritti civili e spesa sociale si sposteranno a destra. Ma al di là delle politiche, sarà la politica a cambiare. Molti movimenti alla destra dei popolari, a cominciare dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che sembra volersi posizionare come nuova mediatrice tra destra e centrodestra, potrebbero entrare nello spazio di governo dell’Unione Europea. Questa dinamica cambierà l’Europa (difficilmente, purtroppo, per il meglio). Ma cambierà anche il volto di questi movimenti, che faranno sempre più fatica a dare la colpa di tutto a Bruxelles, finendo per istituzionalizzarsi e fare i conti con la realtà come la premier italiana.

Come si combatte il populismo?

A fine aprile a Berlino, si è tenuta una conferenza importante organizzata dal Cepr e dal Kiel Institute, dal titolo provocatorio: come si combatte il populismo? Gli studi presentati hanno fatto vedere soprattutto le strategie che non funzionano. Le grandi coalizioni non servono, anzi finiscono col rafforzare la pretesa di alterità dei populisti e il loro successo elettorale. L’accomodamento, cioè il tentativo dei partiti tradizionali di cambiare pelle inglobando alcune posizioni anti-immigrazione e anti establishment, non funziona, perché l’originale è sempre meglio della copia. La strategia di combattere il fuoco con il fuoco, dando ai populisti degli opportunisti e dipingendoli come una nuova élite disinteressata ai problemi dei cittadini, può produrre qualche risultato nell’immediato, spingendo elettori inclini al voto populista verso l’astensione. Ma questa strategia ha effetti controproducenti nel medio termine, dato che quei voti non tornano ai partiti tradizionali ma vengono poi presi da nuovi populisti, magari più radicali e aggressivi dei precedenti.
L’unica strada che resta è quella di attuare politiche che curino il disagio sociale, invertendo la tendenza al taglio dei servizi locali che ha lasciato interi territori privi di presidi sociali, e quella di diffondere narrazioni positive sulla politica. Anche se non c’è evidenza empirica che sorregga del tutto questa ipotesi. Se non altro perché ci vuole tempo per far sì che narrazioni positive si radichino e vincano la battaglia per l’egemonia culturale. Anche le tesi populiste non sono nate nell’arco di una notte. Vengono da anni di guerriglia culturale nelle periferie della politica, sperando che arrivi il momento buono (o la crisi giusta) per tramutarsi in consenso elettorale.

Postpopulismo: che cosa ci aspetta

Ci sono alcune dinamiche strutturali, però, che potrebbero accelerare i tempi. La stessa volatilità di cui si sono avvantaggiati i populisti renderà presto le loro strategie obsolete. Il loro successo elettorale li trasformerà in qualcosa di diverso, normalizzandoli o rendendoli ancora più pericolosi per le democrazie liberali. Le dinamiche della politica non dormono. Al di là del successo o meno delle strategie dei partiti tradizionali, l’ondata populista, almeno così come l’abbiamo conosciuta, è destinata a scemare. Non manca tanto. Dobbiamo prepararci al postpopulismo.
Capisco lo scetticismo: ma come? Abbiamo appena detto che i populisti di destra stanno per fare una scorpacciata di consensi alle elezioni europee del giugno 2024. E Donald Trump potrebbe essere rieletto presidente degli Stati Uniti a novembre. Come si fa a pensare alla fine dell’ondata populista in questa congiuntura politica? Si può e si deve. Per due motivi. Il primo è che tutti i cicli politici hanno una fine, dall’ondata socialdemocratica a quella verde. Il secondo è che proprio quando raggiungono l’apice, prendono il potere, si trasformano istituzionalizzandosi, i movimenti politici pongono le basi per il loro superamento. Il populismo non farà eccezione. E il laboratorio italiano degli ultimi anni è lì a ricordarcelo. Questo non vuol dire che quello che ci aspetta dopo sia auspicabile (si pensi alla parabola di Orban in Ungheria). Di sicuro, si aprirà uno spazio vitale per la reintermediazione, la legittimazione di nuove sovranità transnazionali, il ritorno della politica, risposte nuove a problemi antichi. Ma resterà il rischio che l’assenza di alternative svuoti definitivamente gli spazi della politica, rendendo le democrazie liberali gusci vuoti in balia di dinamiche di potere cripto-autoritarie. Insomma, il postpopulismo è un bivio. Da una parte, ci sono cittadini che controllano i politici. E dall’altra, politici che controllano i cittadini. È questa la battaglia che si sta già consumando dietro le quinte. Chi non se ne occupa, è destinato a perderla.

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