A Torino, il Pd ha lanciato la campagna per le europee. Matteo Renzi ha detto con forza che il Pd ha l’ambizione di andare in Europa per cambiarla, per costruire un’Europa dei popoli e non dei tecnici, delle idee e non delle banche. Ottimo. Ma quali idee? È il momento di farne il fulcro della campagna elettorale. Comprensibilmente, date le priorità dell’attuale fase politica, il premier si è concentrato sulle sfide del governo del Paese. Ma se davvero abbiamo l’ambizione di cambiare l’Europa, adesso serve una campagna che ne parli e smetta di vivere le elezioni europee come un mega sondaggio per misurare i rapporti di forza tra i partiti di un Paese. Come succede un po’ dappertutto.
In questa campagna, il Pd deve metterci la faccia, con la propria classe dirigente e con le proprie idee. Sarebbe bello, per esempio, se le donne e gli uomini che si candidano alle europee pur ricoprendo altri incarichi istituzionali, come quello di parlamentare nazionale, dicessero con chiarezza agli elettori che intendono rinunciarci per andare in Europa. È importante che le candidature europee non siano percepite come un trampolino di carriere proiettate verso ruoli più attraenti, o come il contentino di carriere al tramonto. Le scelte individuali parlano più di mille parole.
Torniamo alle idee. È inutile negare che l’Euro sarà il convitato di pietra delle elezioni. In un Paese che non cresce da decenni, la moneta unica è l’ultimo di una lunga serie di capri espiatori, dalla globalizzazione alla corruzione della classe politica. Per carità, ognuno di questi fenomeni ha le sue colpe (difficilmente Madre Teresa di Calcutta è usata come capro espiatorio). Ma non stanno lì le cause del declino italiano. Dobbiamo uscire da un dibattito tutto ideologico, dove per alcuni l’Euro è un feticcio da difendere a tutti i costi e per altri è l’origine di tutti i nostri mali. La moneta unica è una costruzione imperfetta e perfettibile, ma nel realizzarla la politica decise di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, in attesa di costruire un’Unione più solida anche in altri campi.
In alcuni Paesi, la maggiore integrazione commerciale ha prodotto maggiore competizione e indotto riforme capaci di aumentare la produttività totale dei fattori; in altri ci si è seduti sugli allori per non scontentare gli interessi legati allo status quo distributivo. L’Italia, purtroppo, appartiene al secondo gruppo. Il decennio dell’Euro è l’ennesima occasione mancata della nostra politica economica, che non ha saputo cambiare un modello di sviluppo non più al passo di un nuovo contesto competitivo.
Che fare, allora? Come rendere più credibile e forte la costruzione europea agli occhi dei cittadini? Le proposte che il Pd potrebbe sostanziare non mancano. Per esempio, perché non rilanciare la felice intuizione di Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago, di creare una rete europea di protezione dal rischio disoccupazione? Questa idea, che potrebbe essere discussa con il candidato del Pse Schulz, ha due vantaggi: uno macroeconomico e uno politico. Rispetto al primo, si creerebbe un meccanismo di stabilizzazione automatica (finanziato con risorse comuni) in grado di assorbire shock che colpiscono in maniera diversa i Paesi dell’Unione. E lo si farebbe con un meccanismo che – a differenza di altri che sono stati proposti come gli Eurobond – non creerebbe un trasferimento permanente di risorse dai Paesi del Nord verso quelli periferici, per il semplice fatto che le dinamiche del mercato del lavoro, nel corso del tempo, mostrano andamenti diversi in entrambe le direzioni in Paesi diversi. Il secondo vantaggio sarebbe politico. Di fronte all’avanzata dei partiti anti-europeisti, che fanno proseliti proprio tra le fila degli svantaggiati, fare in modo che i disoccupati ricevano un assegno firmato dall’Unione Europea rafforzerebbe il consenso intorno al progetto europeo.
C’è una seconda idea su cui discutere. Secondo alcuni, serve una grande politica di investimenti a livello europeo. Parliamone, ma prima perché non capiamo come spendiamo i soldi di adesso? Il primo vertice europeo post-elezioni potrebbe essere destinato proprio a una seria valutazione degli effetti delle politiche europee, al posto degli interminabili mercanteggiamenti sui fondi da destinare a questo o quel Paese. Nel 2013, l’Unione Europea ha speso 151 miliardi di Euro, di cui 71 per le politiche a favore della crescita e 60 per le politiche agricole. Che effetti reali hanno prodotto? Prima, capiamo – tutti insieme – come sono usate le risorse attuali. Poi, ci preoccuperemo di stanziarne di nuove.
Queste due proposte sono semplici inviti a un dibattito che stenta a decollare. Se ne potrebbero avanzare altre, da una riforma delle istituzioni comunitarie a un ripensamento dello statuto della Banca Centrale Europea in cui la difesa dell’occupazione abbia pari dignità rispetto alla stabilità dei prezzi. Se le forze europeiste ci metteranno la faccia e la testa, siamo ancora in tempo per salvare il progetto europeo. Tra non molto, potrebbe essere troppo tardi.